“Quando ci si trova faccia a faccia con il
male, si ha più che mai bisogno della minima particella di bene. Si tratta di
fare in modo che la luce continui a risplendere nelle tenebre, e la vostra
candela non ha senso se non nell’oscurità.”
(C.G.Jung – Lettera a padre
Victor White, Oxford, 24 Novembre 1953)
Il
termine teodicea (“giustizia di Dio”) fu coniato da Gottfried Leibniz e
utilizzato per la prima volta nel 1705 in una sua opera in cui affrontava
appunto il tema della “giustificazione di Dio per il male presente nel
creato". Il filosofo tedesco
risolse la questione attribuendo il male del mondo alla libertà offerta da Dio
alle sue creature, in una soluzione conciliante i due concetti dell’ineffabile
potenza divina e del libero arbitrio
umano. Il vocabolo sarà poi utilizzato in seguito come classificazione di
risposte al problema del male, facendo riferimento alle varie culture, pensieri
e religioni.
Le
varie teodicee passano dal concetto del libero arbitrio, quasi una sorta di
alibi divino, attraverso il peccato originale, una specie di giustificazione
derivata da una “scelta” umana originaria. Troviamo il concetto del male quale
eredità pregressa, come nella visione del karma, oppure quale motivazione necessaria
per la crescita spirituale, od ancora come moneta da pagare in questa vita per
godere di gioie nell’aldilà. Vi sono inoltre teodicee che in pratica
“sospendono” la possibilità di giudizio, ritenendo impossibile per l’uomo
comprendere il piano ultimo di Dio. Il male è stato quindi definito “privatio boni”, ossia assenza del bene,
da Agostino di Ippona, e persino una mera illusione da filosofie religiose
orientali quali il buddhismo e l’induismo.
Il pensiero taoista rappresenta attraverso lo yin e yang la complementarità del bene e del male, che esiste
pertanto se non come puro confronto. Insomma, il concetto di male ha
accompagnato ed interrogato da sempre l’uomo: “Si Deus est, cur malum? et unde
malum?”, si domandava anche il filosofo Boezio fornendo una giustificazione
complessa basata su una sorta di discrasia temporale tra Dio e l’essere umano,
fra l’onnipotenza e il libero arbitrio. E’ proprio la libera scelta dell’uomo
alla base della spiegazione del male per l’ebraismo e le religioni di derivazione
cristiana, e Satana è appunto il prodotto della libertà di arbitrio dell’uomo.
La
triste domanda sull’esistenza del male e della sofferenza caratterizza un
famoso personaggio del Tanakh ebraico. Giobbe è una persona giusta e retta, non
cade nell’errore e non compie azioni malvage; malgrado ciò Dio, sfidato da
Satana, lo colpisce con sciagure, povertà, malattie. La storia si articola
quindi in una discussione fra Dio e alcuni amici di Giobbe che lo tormentano,
sostenendo le varie opinioni sul problema
del male, e risolvendosi alfine in un risveglio quasi da incubo del poveretto,
in una sua nuova rinascita spirituale.
Nella
visione cabalistica il male trova motivazione di esistere proprio nell’idea
della creazione stessa – il cosiddetto Tzimtzum - in cui Dio si è contratto (autolimitato)
affinché il mondo potesse nascere. Nell’Albero della Vita la sephirah Geburah
crea qualcosa di diverso dal bene assoluto di Dio, costituisce la violenza e la
forza (“Il regno dei cieli è preso a forza ed i violenti se ne impadroniscono”
– Matteo 11,12) , partorisce la radice
dei nostri mali, il lato nero su cui necessariamente passare, dopo averlo
conquistato, per giungere all’Amore, a Chesed.
La Misericordia di Gedulah può riceverci solo se riusciamo a distinguere
le tenebre dalla luce, il bene dal male, ma soprattutto a comprenderli. Si tratta di un vero e proprio combattimento che
contiene già in sé la riconciliazione tra corpo e spirito, lungo l’asse
orizzontale del mondo materiale. Geburah
prepara l’uomo a ricevere la luce creando il buio, crea l’azione per cui
Gedulah possa divenire finalmente attiva e vivificante. Forza e Amore, male e
bene, sono le due lame della spada che gli antichi cavalieri da sempre hanno
usato a due mani, consapevoli che il doppio filo della lama può colpire sia il
nemico esterno che se stessi: non sic
impi, non sic.
“Se
nel prossimo vedi il buono, imitalo; se nel prossimo vedi il male, guardati
dentro”, asseriva Confucio. Circa due millenni e mezzo più tardi, lo
psicoanalista Carl Gustav Jung affrontava il tema del male, partorendo la sua
celebre teoria dell’ombra. Il male è parte integrante di noi stessi, e il
desiderio di sfuggirgli genera un indissolubile legame fomentato dall’odio per
esso stesso, mentre la consapevolezza della sua esistenza toglie a questi la
forza di vincerci, di sopraffarci. Tutto ciò che dentro di noi rifiutiamo e
neghiamo finisce sempre per tornarci dall’esterno con maggiore violenza. Per
Jung dobbiamo guardare al male come parte complementare del bene all’interno della forza unica che ci governa, accettare
l’ombra come fonte di luce, ritornare a far vibrare il nostro Taijitu
personale, senza combattere né tantomeno eliminare il colore più cupo.
Stanislas
de Guaita, grande esoterista francese, scomparso purtroppo in giovane età nel
1897, ha lasciato incompiuto l’ultimo suo libro “Il Serpente della Genesi”, di
cui faceva parte l’opera “Il problema del male”, la cui impronta generale era
già stata fortunatamente delineata nei suoi diari. Il male ed il bene sono le due
colonne del tempio, l’una nera l’altra bianca, che indicano la strada da
percorrere esattamente al centro, qui nel mondo materiale, ma non sono principi
opposti in lotta fra loro. Rappresentano l’armonia degli opposti, la vita,
l’universo. Non vi è dicotomia perché Tutto è Uno, e la loro coesistenza è solo
un’affermazione del principio unico verso cui tendere. Importante per De Guaita è chiarire che – pur
attestandone l’esistenza - non si può affermare l’essenza autonoma del Male in
quanto contestazione del principio del Bene: il Male è esistente in quanto
negazione del Bene, invece, ed i due assoluti non possono essere assurdamente
ritenuti contrapposti. Il male viene nutrito da sentimenti e vibrazioni
negative che lo proiettano in piani sottili, dove cresce a dismisura e richiede
continuamente sostentamento. Giobbe cade in disgrazia, non perché condannato da
un Dio burlone bensì perché vittima del suo stesso egoismo che richiede
“giustizia” per un uomo che compie solo opere buone. Il suo enorme ego, vestito
di falsa umiltà, gli mostra solo la sua sciagura e non gli permette di scorgere
la visione complessiva di quanto accaduto; l’unico punto di vista è quello
personalissimo della superbia di credere il mondo e se stesso costituiti solo
da bene. Nel nostro mondo la realtà è connessione e armonia tra bene e male,
che non sono altro che modi di percepire le cose. Giobbe non riesce ad elevarsi
e comprendere quest’ordine universale. Nei tre mondi del pensiero, del
sentimento e dello spirito, De Guaita definisce i tre poteri che ostacolano la
diffusione della Luce: l’errore, inteso come offuscamento e negazione
dell’intuizione del divino; l’egoismo, inteso come superbia della propria
coscienza e asservimento del giusto al proprio scopo; la bruttezza, intesa come
accentramento individuale e negazione dell’armonia dell’universo. Giobbe cade
in tutti e tre i “peccati”, appunto: attendendo l’intercessione clemente, la
provvidenza giusta, la meritata ricompensa, Giobbe diventa così il Demiurgo di se stesso.
Da
cosa ha origine il male, perché il male, e perché proprio a me? Cerchiamo di
non cadere in queste domande in cui già mezza risposta è insita ed obbligata, e
ci devierebbe dalla nostra strada. Non è questo ciò che si domanda un uomo che
cerca di progredire sul suo cammino. Non cadiamo nell’inganno della perversione
umana di confondere l’Io per Dio, e di voltarsi innamorati sempre verso noi
stessi piuttosto che amabili verso il divino. La composizione umana è sempre
duplice e la volontà stessa, che dovrebbe alfine regnare sul libero arbitrio
terreno, si asserva da sola in un ossimoro di voluntas e noluntas
assieme. Dobbiamo svincolarci da questa libertà e tornare a nutrire invece la
volontà, facoltà prima necessaria per riacquistare la reintegrazione: pensare, sentire, volere! Per il
nostro amatissimo maestro Louis Claude de Saint Martin, il Bene è simile ad un corso d’acqua che
trascina ed attira tutto lungo il suo corso. Nel nostro mondo ciò avviene in
maniera discontinua, meno potente, più leggera. Ecco, questo è il primo peccato
dell’uomo, la leggerezza: “l’uomo è caduto per essersi contemplato.”
“L’uomo avvicinandosi al male, genera
un’immagine della sua falsa azione, che diviene il suo tormento, quando si
eleva e la contempla. Avvicinandosi al bene, genere un’opera viva che diviene
la sua consolazione di tutti i momenti.
Consultate dunque le vostre due sostanze, e
non ci sarà nulla fra le cause finali o le ragioni delle cose, che non possa
esservi svelato.
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