Talia Iniziata Incognita
“… Occorre essere
molto attenti, occorre essere molto silenziosi, occorre osservarsi molto
chiaramente. E occorre essere molto umili, ossia accettare di non avere una
parte importante in tutta questa cosa. Il guaio è che, di solito, l’essere – o
l’essere vitale, o l’essere mentale, o persino l’essere psichico - , è molto
ansioso di avere una sua parte, molto ansioso.
Per cui si gonfia, occupa molto spazio, ricopre il resto; lo ricopre
così bene che non ci si può nemmeno accorgere della presenza di questa Forza
divina. Infatti il movimento personale del fisico, del corpo, del vitale, della
mente, ricopre tutto con la propria importanza.”
Mère - Conversazioni 1954
Era una calda serata di
luglio, qualche anno fa, quando partecipai ad uno spettacolo di una compagnia
teatrale fiorentina alla Certosa del Galluzzo, l’imponente complesso costruito
a metà XIV secolo sulle colline di Firenze. Un viaggio attraverso lo spazio ed
il tempo in uno dei monasteri più ricchi di storia non solo della Toscana. Il
pubblico seguiva il cammino di un monaco certosino all’interno dell’edificio,
incontrando figure uscite direttamente dagli spazi di spirituale mistero di
quella quotidianità. Queste ci narravano la storia dell’edificio stesso, ma
soprattutto la scelta, le difficoltà, la volontà di uomini che decisero - e
decidono oggi - di abbandonare suoni e rumori per il silenzio e il deserto,
dedicandosi alla preghiera e rispettando il blocco della “chiostra dei denti”.
A noi spettatori era stato detto di non parlare e di ascoltare le parole
narrate. Lo spettacolo si intitolava “L’azione del silenzio”. Quando il Maestro
mi ricordò che il mio grado era dedicato allo studio e al silenzio, non potei
evitare di ripensare e rivivere le sensazioni provate durante quella serata. E
come spesso accade nel nostro mondo, l’esperienza ed il ricordo aiutarono a
procedere ad un lavoro di riflessione e meditazione.
All’entrata dei templi misterici
dell’antico Egitto, veniva riportata l’effige
di Arpocrate, dio del silenzio e del segreto, fratello di Horus, nel suo
aspetto di giovane fanciullo che porta un dito alle labbra. L’iniziato, al suo
ingresso nel tempio, doveva passare davanti all’immagine, simboleggiando
l’accettazione dell’osservanza di un periodo di totale silenzio. Il “signum
harpocraticum” rappresentava comunque anche l’accesso a verità superiori, il
passaggio da uno stato ordinario al sapere sovrannaturale. Plutarco – a proposito di Arpocrate - scrive: “…è il patrono e il precettore della
umana attività di comprensione del divino, che è imperfetta, immatura e
inarticolata” leggendo quindi, in quel
suo gesto, il massimo invito alla prudenza durante questo trapasso di
evoluzione spirituale. Sempre mediante le parole dello scrittore greco,
apprendiamo che “Iside si unì ad Osiride anche dopo la sua morte e partorì un
figlio prematuro e rachitico negli arti inferiori, Arpocrate”, a cui venivano
fatte offerte durante i mesi estivi, accompagnandole dalle parole “La lingua è
fortuna o destino, la lingua è divinità o demone”. Ancora un forte monito, ma
anche l’indicazione di una via alla conoscenza basata sulla volontà e sulla
concentrazione, sulla interiorizzazione della parola e sulla consapevolezza del
potenziale creativo di questa. Il suo culto si diffuse fino all’area greca,
traducendosi nel dio Sigalione, ed in quella romana, trasformandosi nella dea
Angerona. Il Cartari, nel suo trattato cinquecentesco, descrive Arpocrate come
privo di volto, con il capo coperto da un cappello e rivestito da un mantello
in pelle di lupo cosparso di occhi e di orecchi perché “bisogna vedere e udire
assai, ma parlare poco”. Sempre durante il XVI secolo, il simbolo del silenzio
viene passato di mano da Arpocrate a Mercurio. In una incisione del
“Symbolicarum queaestionum” del Bocchi, troviamo Hermes che compie il gesto del
silenzio con la mano destra, tenendo nell’altra un candeliere a sette luci e
portando sopra la testa una scritta circolare “Manet in se monas” (trad.: l’uno
resta in sé), forse richiamo al percorso di conoscenza e ritorno verso l’Unità.
Nel dipinto “Giove, Mercurio e la Virtù” del Dossi, in un’allegoria che
raffigura la creazione del mondo, Giove dipinge farfalle mentre Mercurio intima
il silenzio alla donna posizionata dietro di lui che rappresenta l’Eloquenza.
Le parole sono inutili e fastidiose in
un atto così eccelso come quello di creare farfalle, simbolo di trasformazione
e di innalzamento dell’anima: ricordiamo che la parola psiché in greco
significa sia anima che farfalla. Arpocrate/Hermes rappresenta il segreto della
creazione, la sapienza conosciuta agli antichi e da questi travestita in
simboli e miti, il monito al segreto delle conoscenze iniziatiche e
contemporaneamente l’invito all’introspezione ed alla meditazione. Il Dio del
Silenzio era quindi la sintesi e la simbiosi dell’occulto sapere iniziatico che
conduce ed introduce nel Tempio, e della
ricerca del silenzio interiore che emerge dopo che sono placati i fastidiosi
rumori metallici della nostra umanità.
Il silenzio appare, a primo
approccio, come una privazione, un vuoto angosciante che ricorda
inevitabilmente la morte. Nei cimiteri
monumentali – ma non solo – non è difficile incontrare statue di angeli del
silenzio che ricordano il rispetto ed ammoniscono alla vacuità del vivere. Il
mondo materiale è pieno di simboli e di comunicazioni non verbali che non
vengono colti proprio perché frastornati dal rumore
assordante, dalla fretta
della percezione. Nella vita infatti questo horror vacui si traduce in una
ricerca senza sosta del riempimento, attraverso l’abitudine alla velocità e la
quantità caotica e stordente di parole, comunicazione, contatti. In effetti nel
silenzio troviamo realmente quella morte misterica che prelude alla rinascita
spirituale, oltrepassiamo davvero la porta bassissima della parola per accedere
all’universo silenzioso dove risuona un altro linguaggio, dove la lentezza non
è errore bensì creatività, armonia, rito. Il silenzio attrae e
contemporaneamente impaurisce, così come il sacro, e ci immette al loro
cospetto. Imparare a mantenere il silenzio è come imparare a morire senza
averne più paura, è avvicinarsi ad uno dei più grandi misteri con la luce
illuminante dell’iniziato, così come insegnato da Platone, Epicuro, il Buddha,
I Veda, le Upanishad, e così come possiamo mirabilmente ammirare ancora oggi nel rituale del Cha no yu, la
dolcemente sempiterna cerimonia del tè giapponese.
La torre di Babele è l’emblema mitico che
esalta, tramite il processo inverso di negatività, il ritorno al silenzio. La
leggenda narra l’ambizione e l’arroganza umana che sono già rumore interiore e
poi sociale. Il linguaggio non riesce ad assolvere il suo compito ordinario di
comunicazione tra simili ma anzi diventa prigione di solitudine. All’opposto incontriamo l’isolamento di Gesù
nel deserto, raccontato da Matteo nel suo vangelo. Un periodo di 40 giorni
vissuti in un assordante silenzio interrotto solo dalle tentazioni di un Io
ruffiano e rumoroso che tutti portiamo quotidianamente dentro di noi. Il
silenzio è il luogo senza spazio e il momento senza tempo in cui possiamo
riuscire a vincere la solitudine, la paura dello sconosciuto, l’angoscia
dell’equilibrio interiore. È l’unica musica che può accompagnarci nel percorso
attraverso il proprio deserto spirituale. Nella scuola creata da Pitagora a
Crotone, veniva formato un ordine di adepti e sapienti , distinti in
“exoterici”, ossia “quelli di fuori”, a loro volta suddivisi in uditori
(acusmatici), parlatori e matematici, e in esoterici, ossia il “gruppo
interno”. Nel primo grado era imposta la disciplina del silenzio, detta
“echemythia”, considerata la più alta forma di autocontrollo , e che poteva
durare da due a cinque anni (secondo Giamblico). I discepoli non potevano
commentare né chiedere spiegazioni, accettando ciò che giungeva dal maestro
nella forma nota a noi come ipse dixit (trad.: l’ha detto lui). Lungi
dall’essere un’imposizione dittatoriale, la regola del silenzio era il primo
gradino dell’insegnamento: quello che indicava che alcune verità, in un primo
momento possono essere solo accettate, rimandandone la vera comprensione in
seguito ad un percorso di maturazione e di progressione. Trascorso questo
periodo, si veniva ammessi al grado dei “parlatori” in cui era permesso porre
domande e discutere argomenti. Alla fine si passava al terzo grado dei
“matematici” dove venivano approfonditi gli studi sulle scienze “fisiche” oltre
che matematiche vere e proprie. Nella scuola pitagorica chi veniva meno alla
regola del silenzio veniva cancellato e dichiarato morto tramite un vero e
proprio cenotafio.
Per Pitagora restare in
silenzio significava non parlare, cioè non emettere suono, ma anche non
sentire, cioè evitare l’influenza di suoni esteriori. Il silenzio doveva
comunque esaltare il valore degli insegnamenti del maestro, come un chiaroscuro
partorisce la forma elogiando la linea in un disegno. Il significato della
parola silenzio oggi è indicato nella relativa o assoluta mancanza di rumore o
suono, parola o dialogo. Il termine “silentium” deriva dal latino silere che
significa tacere. I latini comunque ben distinguevano questi due termini
indicanti ciò/chi non parla, come ci ricorda anche L.Heilmann in
uno dei suoi
quaderni. La differenza che distingue
“sileo” e “taceo” risiede nell’opposizione tra il valore positivo del primo ed
il valore negativo del secondo. Silere
indica una realtà in atto o comunque che si sta creando, rappresenta la calma
delle cose, l’assenza di rumore sia interiore che esteriore: è l’affermazione
del silenzio. Tacere constata l’assenza di qualcosa, è la cessazione del
movimento della parola e del rumore, la loro sospensione: è la negazione del
suono. Due connotazioni ben diverse con direzioni altrettanto differenti,
proprio come ci ha insegnato Pitagora: passiva e attiva, esteriore e
interiore.
La valenza passiva del silenzio
nasce da una sottrazione al rumore o al suono. È una fuga da invasioni esterne
che, inconsciamente o meno, soverchiano la nostra volontà ed invadono gli spazi
necessari alla nostra azione interiore. Muoversi dentro di noi - per
ascoltarsi! - comporta quel movimento simile all’azione fisica del voltarsi, in
cui inevitabilmente occupiamo più spazio del nostro volume reale, per poterci
aiutare e sorreggere in un’azione di inversione di direzione. In quel momento
tutto può ostacolarci se proveniente da fuori, tutto può aumentare la
difficoltà motoria. Così è per l’ascolto interiore. Il silenzio è un periodo di sospensione
e di attesa che ci consente di metterci
più agevolmente in modalità ricettiva. D’altra parte il silenzio è considerato
una componente della musica in quanto sospensione del suono a cui la accomuna
un’unica caratteristica: la durata. Si
narra che la musica di Anton Webern sia stata creata “con una gomma da
cancellare” trattandosi di composizioni esasperate sino al limite del silenzio,
esaltato da un utilizzo magicamente estremo delle pause. Qualsiasi dialogo inoltre
è impossibile senza pause: è inevitabile fermarsi e “dare la parola” per
riuscire a parlare in due, è impossibile senza ricorrere al silenzio che assume
così valore di contenitore, oltre che di contenuto.
Tale è nella nostra
interiorità dove gli insegnamenti e le riflessioni devono trovare lo spazio
adeguato per accomodarsi ed essere compresi. Ghandi ci insegnava che “Il
silenzio apre una via”.
La caratteristica attiva riguarda la ricerca
dell’ascolto del silenzio interiore. Dopo un processo di allontanamento dalla
realtà eccessiva e rumorosa, dove ogni cosa viene esteriorizzata senza alcun
filtro, possiamo finalmente rientrare in noi, volgendo maggiore attenzione al
cammino di askesis intrapreso per togliere la polvere interiore e vedere più
nel profondo, in una apparente contraddizione in cui le orecchie si chiudono
per facilitare l’apertura degli occhi. Il bambino per giocare all’immaginazione
chiude le orecchie, si accovaccia e volge lo sguardo verso il suo grembo, in
fondo. E il sapiente parla poco perché
ha una cosa più elevata a cui dedicare la propria attenzione: ascoltare.
I padri greci – ed in tempi più recenti, Simone Weil - hanno sottolineato i
legami strettissimi fra prosoché (attenzione) e proseuché (preghiera),
evidenziando l’assonanza che corre fra i due termini. “L’attenzione che cerca
la preghiera troverà la preghiera: la preghiera infatti segue l’attenzione ed è
a questa che occorre applicarsi” (Evagrio Pontico).
Il silenzio è parte
fondante della meditazione. Socrate “ascoltava le parole silenziose del suo
demone risuonare dentro di lui”. Il silenzio è pulizia interiore del
sovrabbondante e predispone all’essenziale. Le tecniche di meditazione,
attraverso la liberazione dai pensieri ordinari, sono propedeutiche al dialogo
interiore. Nell’esperienza del silenzio riesumiamo un’area di conoscenza
caratterizzata dalla vera libertà, nell’ascolto della voce interiore che è voce
priva di suono. Tale meta può essere raggiunta tramite un percorso
apparentemente di regressione, tornando bambini e liberandosi da abitudini,
omologazioni, assunti,
limitazioni, insomma dalla nostra maya illusoria. Si tratta di un lavoro lento
di ri-conquista della gestione del pensiero e soprattutto del suo diabolico
chiacchiericcio, per ri-creare quella condizione di silenzio narrataci dal “Dio
disse…” del Genesi. Prima della Parola cosa c’era? Il Silenzio, in attesa di
essere trasformato in Vita, concentrata e chiara fonte di azione divina. Il
controllo mentale e la consapevolezza del hit et nunc sono gradini fondamentali
per qualsiasi tipo di meditazione atta a creare quel vuoto che si spalanca
sulla nostra coscienza che “parla unicamente e costantemente nel modo del
silenzio” (Heidegger) e da cui fa affiorare legami, ricordi, aloni che da
sempre costituiscono il nostro vero sé. In quell’atonia ritroviamo la nostra
sacralità che non può tradursi in parola – sempre in ritardo, spesso in errore
- perché “Il Tao che si può esprimere non è il vero Tao” come Lao Tzu ci ha
insegnato circa 2500 anni fa.
Il silenzio è una condizione disciplinante in
quanto addestra a contenere noi stessi, nell’economia del governo delle forze e
nella difesa da attacchi negativi o anche soltanto superflui; crea gli spazi
per comprenderci in profondità e meditare su quanto appreso, raggiungendo una
solida base di armonia su cui poter costruire e progredire, ed in mancanza
della quale non possiamo che procedere su gradini di sabbia bagnata. Il
silenzio non è quindi meramente rifiuto o sospensione di comunicazione verso
l’esterno, bensì un metodo di ricerca e di espressione. Il silenzio di silere e
tacere assieme: è necessario creare un vuoto affinché questo venga riempito. Il
silenzio contemporaneamente fuori e dentro me: è necessario non sentire alcuna
cosa affinché si possa ascoltare tutto. Il silenzio non è una deficienza di
parole bensì un nuovo e sorprendente linguaggio che trova espressione nei
simboli mostratici dal maestro e nella loro evocazione interiore che ci parla
continuamente, in un caleidoscopio di significati che urlano in un assordante
deserto interiore. Il silenzio permette di ascoltare il linguaggio simbolico,
allestendo dentro di noi una scuola idonea a riceverne l’universalità per poi
intuirne il senso attraverso un abbecedario eterno. La quiescenza del rumore
dei sensi è finalizzata al risveglio della conoscenza più profonda che riposa
silenziosa in noi e che ogni tanto ci appare a sprazzi in ricordi, pitture,
segni, musiche, edifici, trascurata dalla nostra attenzione superficiale. Il
silenzio funziona contemporaneamente da contenitore e da amplificatore cosicché
il simbolo, finestra sull’Universo, si spalanchi sempre di più a noi.
Nell’assenza di rumore impariamo ad ascoltare le nostre profondità dove sono
conservate le modalità di lettura di questo nuovo linguaggio, dove possiamo
assurgere a fonti archetipali, immaginazione, reminescenze. Baudelaire nelle
sue “Corrispondenze” canta:
“La natura è un tempio
dove colonne viventi lasciano talvolta uscire delle confuse parole; l’uomo vi
passa attraverso foreste di simboli che l’osservano con sguardi familiari”
Il silenzio cela un
metodo, quello dell’apprendimento sia che questo derivi da insegnamenti orali
che da operazioni interiori. È il passo principale di chi è consapevole di
volere e dovere imparare, e conoscere un suono nuovo
rispetto alla propria
scala musicale. È il segno di riconoscimento del neofita, consapevole dei
propri limiti, a cui risponde
simbolicamente (nel senso etimologico, come due cocci spezzati da assemblare di
nuovo) la parola del maestro. Il silenzio è il primo dono che viene elargito in
quel piccolo angusto gabinetto dove ci ritroviamo a percepire ogni piccolo
rumore come amplificato, fuori e dentro di noi. È il dono dell’umile conoscenza
potenziale che si trasformerà – più o meno lentamente – in conoscenza attiva. È
il dono di imparare la virtù dell’ascolto, proporzionale alla capacità di
ricevere. È il dono di poter meditare senza alcun disturbo, in compagnia di se
stesso. Il silenzio è dono e arte. Secondo una leggenda contemporanea, che
trova il suo fondamento nella tradizione rabbinica, tutti noi portiamo sulla
nostra pelle il segno del silenzio: il prolabio, quel piccolo incavo verticale
tra naso e labbra , l’impronta lasciata dal dito di un angelo intervenuto alla
nostra nascita, per tacitarci di tutti i saperi che possedevamo prima di venire
alla luce (terrena)…
Carl Gustav Jung, nella
prefazione all’ ”IChing - Il libro dei mutamenti” ricorda che l’uovo è cavo ma
non vuoto. Da fuori la luce e il calore agiscono in modo da destare la vita che
è dentro, e permettono il dischiudersi
dell’uovo. Ma può venire alla luce solo
la vita che è già in germe. Così noi esseri umani siamo già predisposti alla verità
interiore ma dobbiamo “covarla” facendo silenzio. Solo possedere il silenzio
nella sua totalità può concederci di acquisire anche la proprietà delle parole.
Diventarne parchi e maestri, consapevoli di avere fra le mani uno strumento
ormai esaurito e morto. Spesso quando il Maestro mi chiede se ho domande da
porgli, pur possedendone un’enorme quantità che quotidianamente alimento e si
alimentano, io cado nel più profondo silenzio, accettando l’eterno kairos del
mio primo grado. Il silenzio, iniziale scalino del cammino senza fine
dell’iniziato, è la sottile coda dell’euroboro che, tramite l’evoluzione
progressiva - lo studio il confronto il pensiero l’operatività la preghiera la
meditazione - si ripiegherà su se stesso
per poter completare la sua perfezione, di nuovo e finalmente nel silenzio
unitario.
“Nel Silenzio, la Volontà
libera e assoluta dell'Essere si appella al Verbo affinché ci riempia. Senza il Silenzio, nessuna parola. Senza il Verbo, nessun ritorno verso l'Uno”
- Tavola Naturale dei
rapporti esistenti tra Dio, l’Uomo e l’Universo -
Louis-Claude de
Saint-Martin
www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com
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