Uriel Associato Incognito
La maschera è un
manufatto che ricoprendo il viso o parte di esso, consente a chi la indossa di
nascondere, alterare o dissimulare la propria identità e assumerne un’altra.
L’etimologia della parola maschera non è conosciuta con certezza; molto
probabilmente deriva dal latino “per sonar”, risuonare attraverso, e così era
chiamata la maschera indossata dagli attori nell’antichità: dalla maschera si
passerebbe al personaggio e dal personaggio alla persona con l’uscita di scena.
I contesti in cui la maschera trova uso sono
macroscopicamente due: quello rituale e lo spettacolo. La distinzione è
determinante per capire la funzione di tutto l’intorno: gesti, musiche, parole,
abbigliamento, colori. Il contesto può essere anche ibrido, ad esempio una
rappresentazione teatrale che mostra un rituale spirituale vero e proprio, o
una festa popolare di piazza, ove i mascherati sono contemporaneamente
protagonisti e fruitori; i contesti ibridi sono particolarmente interessanti
per l’antropologia culturale perché, a volte e senza saperlo, i popoli hanno
conservato intatte certe cerimonie di carattere spirituale perdendone le chiavi
di lettura e proprio questa perdita ha consentito la preservazione delle gesta
cerimoniali.
L’archeologia sostiene
che già in età paleolitica, le maschere erano usate dagli stregoni delle tribù
africane per accedere, con opportuni riti, al mondo invisibile e propiziare gli
spiriti benigni e allontanare quelli maligni. Già in questo atteggiamento è ben
visibile la necessità dello stregone-medium di dover nascondere per tutta la
durata della comunicazione la propria identità e assumerne un’altra per poter
entrare in contatto con il regno dell’invisibile. L’abbandono, anche
temporaneo, della propria identità, la rinuncia, anche parziale, del proprio io
è già ben visibile in questo genere di ritualità preistorica, così come
l’esaltazione del ruolo a discapito dell’individualità.
Nell’Africa preistorica le maschere trovavano
una seconda funzionalità sociale nel culto degli antenati. Nel mondo moderno i
busti ricordano uomini illustri morti e riproducono con grande precisione i
connotati del viso; nell’Africa preistorica invece le maschere degli antenati
non riproducevano il viso del defunto, ma la sua interiorità: c’era una sorta
di fisiognomica, che cambiava da tribù a tribù, secondo la quale gli aspetti
del viso –quali ad esempio il taglio degli occhi piuttosto che l’apertura della
bocca o la forma delle orecchie– avevano una connotazione con una qualche
qualità morale del defunto.
In entrambe le funzionalità, è possibile
scorgere un cambio di identità tra la persona che indossa la maschera e il
personaggio. Nel caso dello stregone, egli ne deve imitare i movimenti, che sia
questi una divinità, un animale o uno spirito benigno o maligno. Ciò è vero
anche quando le maschere rappresentano spiriti di antenati, ove chi ne indossa
una funge da medium tra il piano sensibile e quello spirituale.
In Asia troviamo cerimonie religiose a
carattere bucolico, funerario, esorcistico, medicamentale oppure morale ove le
maschere trovavano una funzione centrale. In particolare sull’aspetto morale,
certi riti celebravano la vittoria del bene sul male: la vittoria del Buddismo
sulla religione animista sull’Himalaya, le storie umoristico-morali dell’isola
di Bali, le maschere cinesi a forma di drago con il loro significato di
benevolenza e lunga vita. Da non trascurare le maschere asiatiche a tre occhi,
ove il terzo occhio rappresentava l’anima. Anche il materiale adoperato,
pellame, legno, piume, pietre preziose, conchiglie e altro, aveva una sua
funzione simbolica che sarebbe troppo lunga da analizzare in questo lavoro. In
Siberia, ove lo Sciamanesimo era molto radicato, ritroviamo la figura
mascherata che, similmente allo stregone africano, era un guaritore, un comunicatore
con l’aldilà e anche un saggio. Lo sciamano, per entrare in trance, abbisognava
di una serie di supporti musicali molto ritmati, travestimenti con pelli
animali (e si potrebbe fare un parallelo con il mantello martinista), maschere
le cui fattezze ricordano quelle degli spiriti da evocare; e quando lo sciamano
finalmente cadeva in trance, diventava un altro, si tramutava in altro, al fine
di portare nel mondo dei vivi il potere donatogli dagli spiriti.
Nelle Americhe centrali
precolombiane, le maschere espletavano la loro funzione specialmente nei
rituali a carattere religioso poiché davano poteri sovrannaturali ai sacerdoti
e agli stregoni che le indossavano. Solo dopo iniziarono a rappresentare
aspetti del carattere umano. Più a sud antiche civiltà andine utilizzavano le
maschere in danze popolari simili a quelle carnevalesche per evocare angeli e
demoni nonché spiriti di animali. In Brasile la paleontologia riferisce di
maschere risalenti a sessanta mila anni fa; in America del nord, le danze ritmate
degli indiani, accompagnate da tamburi e flauti di canna, favorivano l’estasi
dello stregone, mascherato e coperto di pellame animale come lo sciamano
asiatico, che entrava in estasi e stabiliva un contatto con il Grande Spirito,
uno spazio trascendente detto anche Grande Mistero che sta alla base di tutto
l’universo. Anche in Groenlandia la funzione della maschera è quella di
stabilire un ponte di comunicazione con il trascendente, con l’oltre, e
–caratteristica costante– l’operatore mascherato obnubila la propria
personalità, la propria identità, in funzione dell’operazione magica, del ruolo
sovrannaturale che sta compiendo.
Il Guenon, in Simboli della Scienza Sacra, dà
un’interpretazione delle feste carnevalesche e delle mascherate: le maschere di
carnevale sono volutamente orride per evidenziare una sorta di
materializzazione figurativa degli stati inferiori dell’essere. Questa
apparente direzione controiniziatica è spiegata dal Guenon in un contesto
tradizionale: proprio il carattere temporaneo di una festa carnevalesca
consente di canalizzare dall’interno verso l’esterno gli aspetti demoniaci che
albergano dentro per renderli così inoffensivi e innocui, una sorta di
esorcizzazione del male. Tra l’altro ognuno scegliendo la maschera che più nasconde
la propria specifica individualità, inconsapevolmente tenta di far apparire
agli occhi degli altri quello che egli porta realmente dentro e che
quotidianamente deve dissimulare, nascondere, in qualche modo gestire. Ciò che
sembra contro-iniziatico, nella temporaneità della festa carnevalesca, di fatto
diventa esternazione liberatoria delle qualità inferiori dell’essere.
La maschera nel teatro non va trascurata,
poiché al di là dell’aspetto puramente legato all’intrattenimento, vi sono
significati assai profondi. Nel teatro greco, gli attori coprivano il volto con
una maschera che raffigurava il personaggio da interpretare; tale usanza
derivava dai Misteri iniziatici in cui il ruolo della maschera era un ruolo
meramente esoterico: nascondere e rivelare (nel senso di ri-velare), oltre che
produrre effetti di straniamento, ovverosia la deformazione dei ruoli delle
persone e dell’ambiente al fine di far percepire agli spettatori i fatti
trasmutati in un’altra ottica.
Per estensione, il termine maschera ha anche
un valore negativo: con l’espressione idiomatica “mettere una maschera” si
intendono i termini fingere, dissimulare, apparire volutamente diversi. Quindi
metafora di falsa esteriorità, camuffamento, ipocrisia, moltiplicazione
dell’io. Questa accezione non sorprenda, il linguaggio moderno tende spesso ad
alterare i significati delle parole adattandoli alla vita pratica secolarizzata
e strappandoli alla loro etimologia originale.
Nel Martinismo la maschera è il simbolo della
spersonalizzazione, dell’abbandono del proprio io, della propria identità.
Mediante la maschera la personalità mondana va in secondo piano, fino a
scomparire. Il Martinista così diventa uno sconosciuto tra gli sconosciuti.
Bisogna mettere in secondo piano, fino a imparare a far scomparire del tutto,
la competizione energivora che c’è tra gli uomini, con tutte le pochezze e
piccolezze della vita materiale di ogni giorno. Il simbolismo della maschera
evoca l’esperienza di essere in mezzo ad una moltitudine di gente che non si conosce
e a cui nulla viene chiesto, nulla essa pretende. Viene meno la logica del «do
ut des», anzi prende corpo una sorta d’isolamento che invita a conoscere se
stessi e dalla conoscenza di sé poi progredire all’essere se stessi.
Sviluppando questo simbolismo, da questo isolamento il Martinista si pone
davanti alla propria coscienza, diventa contemporaneamente giudice e
consigliere di se stesso. Tutto ciò non basta: oltre alla consapevolezza di sé,
giocano ruoli fondamentali la meditazione e la volontà. La meditazione quale
strumento di ascolto del sé non mediato dalla ragione onde superare gli egoismi
dell’io, la volontà affinché il sacrificio della propria individualità diventi
atto concreto di fare il bene, e questo atto deve essere fatto da sconosciuto a
beneficio di sconosciuti. La maschera e il mantello sono strumenti ermetici,
strumenti di isolamento atti a proteggere dall’influenza esterna la sua ricerca
interiore; sono altresì strumenti di libertà che proteggono e rendono più
libero il pensiero e l’opinione del Martinista che può compiere così la sua
trasmutazione interiore.
Da porre l’accento sulla parola incognito che
aggettiva i gradi martinisti: Associato Incognito, Iniziato Incognito e
Superiore Incognito: Louis Claude de Saint Martin, detto Il Filosofo Incognito,
era solito autodefinirsi tale proprio per abnegare la propria individualità in
favore di una appartenenza a una dimensione più sistemica con il divino.
La maschera è sempre presente nella tornata
martinista, si trova sul lato sinistro dell’altare; sotto di essa trova posto
il mantello e davanti il cordone. Maschera, mantello e cordone sono tre simboli
di protezione, tre gioielli fondamentali della tradizione martinista, e
rappresentano una sintesi simbolica di tutti gli strumenti operativi necessari
per vivere e operare in contrasto con i mille superflui strumenti e protesi di
cui ci dotiamo ogni giorno per agire nella vita materiale. Abbiamo visto sopra
che la maschera, nella sua estensione, è un termine polisemico e può avere
accezioni positive e negative; anche in seno al Martinismo, la maschera tende a
essere un simbolo incompreso, probabilmente per l’accezione negativa che le dà
il linguaggio moderno descritto sopra. In realtà, essa non nasconde la nostra
vera natura, ma ci protegge dagli sguardi profani e questo, isolandoci dai
condizionamenti, consente di scavare meglio le profondità dell’io e conoscere
la propria essenza di natura divina. Tenendo a mente l’etimo della parola
maschera, è come se la persona, per vedersi nel profondo, per conoscere
veramente la propria essenza, debba guardarsi da una platea: è l’io che cerca
di andare oltre, di essere oltre, e di guardare il sé dall’esterno,
sintetizzabile nel divino ”Io Sono”, sintesi estrema della consapevolezza di
appartenere a un oltre. La maschera è sicuramente uno dei simboli più vicini
alla via teurgica poiché, annullando l’individualità profana, fa diventare
l’uomo mezzo e veicolo per la preghiera d’invocazione e di evocazione; il
mantello invece è certamente più vicino alla via cardiaca perché, proteggendo
l’interno dall’esterno, simboleggiando la non dispersione del calore del cuore,
fa andare nel mondo in maniera incognita, trattiene le energie interiori e
rende più concentrati su se stessi, al fine di usare al meglio tali energie.
La maschera è indossata dai fratelli e dalle
sorelle nelle sole tornate di iniziazione; per chi pratica anche i templi
massonici, nasce spontaneo il raffronto tra la maschera e il cappuccio (detto
anche buffa) indossato dai massoni durante la cerimonia di iniziazione. Il
simbolismo non è propriamente lo stesso, per quanto sia possibile fare qualche
parallelismo; nella sua accezione più semplice il cappuccio nasconde l’identità
dei massoni al recipiendario, che dal momento della mezza luce fino alla piena
luce dell’Oriente, quando ancora per l’ultima volta ha la facoltà di
rinunciare, non ha ancora modo di conoscere chi sono i suoi potenziali futuri
fratelli. Il cappuccio dell’Esperto Terribile, che è il primo massone che il
profano vede quando gli viene tolta la benda nel gabinetto di riflessione, ha
il compito di incutere dello spavento, funzionale a dare una certa solennità e
favorire una riflessione quanto più seria e profonda possibile. Da tenere
presente che durante la cerimonia d’iniziazione massonica fino alla piena luce,
profano e massoni non hanno mai il volto contemporaneamente scoperto: se il
recipiendario è bendato i fratelli sono senza cappuccio, se il recipiendario è
senza benda i fratelli sono incappucciati. Al di là di ovvie considerazioni di
natura prudenziale circa l’identità dei fratelli, questo gioco di nascondere e
rivelare suggerisce un più profondo simbolismo di conoscenza dell’immanifestato
che si palesa sul piano sensibile per essere catturato e fatto proprio. Forse
solo questo è l’unico vero punto di contatto tra la maschera martinista e il
cappuccio massonico.
In conclusione la maschera martinista è il
simbolo dell’immanifesto che si deve mascherare per essere accessibile
all’uomo. Infatti l’uomo, legato nella sua operatività al regno di Malkuth, non
riesce a pensare senza categorie materiali e spazio-temporali, e quindi per
poter afferrare gli aspetti dell’immanifesto, ha necessità di rappresentarli
con dei simboli (vere e proprie maschere di archetipi) affinché ricadano in
categorie più consone al piano umano. Girando la frase, il piano sottile per
essere visibile, per stabilire un contatto con l’uomo, deve in qualche modo
ri-velarsi, ovverosia per palesarsi deve mascherarsi in modo da avere sembianze
meno sottili, anche se naturalmente non propriamente sensibili, diciamo –per
intendersi– perlomeno intuibili per via non-razionale.
www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com
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