domenica 2 settembre 2018

LA NOSTALGIA GNOSTICA


E' facile per il lettore esaltarsi nella meraviglia, o sprofondare nello sconforto, innanzi ai raffinati miti gnostici.Le elaborate teogonie, le machiavelliche cosmogonie, gli oscuri nomi, gli eoni infedeli, le suicide missioni salvifiche sono gli ingredienti comuni a ogni scuola e comunità gnostica, realizzando così un intricato, quanto raffinato, ordito per mente e anima.  All'estraneo, al curioso, potrebbe sembrare che nessuna di queste fratellanze gnostiche cristiane avessero pace  fino a quando non si differenziava rispetto alle altre per qualche peculiarità, per un nuovo estroso nome demoniaco, o per qualche particolare mitologico. Vi è però differenza fra ciò che appare all'estraneo, e la sostanza che coglie l'adepto, ed è proprio su questo binomio ( apparenza –sostanza) che si fonda l'intera speculazione gnostica cristiana.


Prima di proseguire nella trattazione, è però necessario ricordare come la comunicazione gnostica non ha mai avuto come finalizzazione l'universalità umana, ma bensì quella di trasmettere all'interno delle strette fratellanze la luce, il verbo, i fondamentali, della scuola. Tale distinzione ragionevolmente ci porta a considerare che è l'uomo moderno, il non gnostico per eccellenza, che deve sforzarsi di comprendere  ciò che i pneumatici riservavano ai loro simili, e non stupirsi per la presunta incomunicabilità di questi ultimi che certamente non volevano e non potevano comunicare a colui che risultava esterno al cerchio.

Dobbiamo costatare come solitamente gli studiosi, i curiosi, gli esterni in generale, danno lettura del mito gnostico in chiave involutiva. Tale chiave discende dall'umana tendenza di ricercare ciò che è fuori e non ciò che è dentro, l'esatto opposto dell'azione percettiva-cognitiva gnostica che si muove dall’esterno verso l’interno.

La quiete del Pleroma è rotta dal desiderio di un Eone ( Sophia ) che, in virtù della propria colpa lunare, crea un Dio inferiore che a sua volta plasma altre potenze psichiche, il mondo, e l'uomo. Nell'uomo è prigioniera una particola di pneuma che anela a tornare al mondo celeste, sfuggendo dalla ferrea presa degli Arconti. Questo a grandi linee, salvo modifiche formali, è il tracciato del mito gnostico involutivo, com’è stato definito. Purtroppo tale lettura, o meglio la direzione della stessa, non corrisponde al moto iniziale, alla molla, della speculazione gnostica. Essa non è una nevrotica rappresentazione della Creazione e della Genesi della Creatura per eccellenza innanzi a un Dio prima di Dio, bensì, come mostreremo a breve, una risposta intimistica e scevra dall'onnipresente fardello degli dei al perché pochi anelino a non essere, a liberarsi di ogni umano limite, di ogni imposizione posta dall’uomo a se stesso. 

Lo gnostico è l'unità di misura di ogni fenomeno, e ogni fenomeno è esterno allo gnostico. In tale prospettiva intima è negata ogni sostanza, ogni assolutezza, ogni immutabilità a tutto ciò che lo circonda. Lo gnostico intuisce ( attraverso i doni divini, conseguenti alla propria naturale condizione di risveglio ) la profonda caducità della creazione, il vacillare della mente nel trovare giustificazione omnicomprensiva a quanto la circonda, la persistente insoddisfazione che le cose di questo mondo gli procurano e, di riflesso, l'incapacità di trovare nel mondo ristoro per l'anima. Leggiamo: 

<< L'anima erra in un labirinto, infelice, non c'è via di uscita davanti al male..... tenta di sfuggire al caos amaro, ma non sa dove dirigersi >> ( Salmo dei Naaseni )
L’anima gnostica è racchiusa nel corpo fisico, e resa in catene dalla percezione dei sensi, incapace di trovare soddisfazione e appagamento in quanto la circonda. Il mondo esterno  assume forma di intricato labirinto. Essa non trova linimento alcuno al dolore che anzi è amplificato dalla constatazione che a esso non vi è uscita. Questo salmo Naaseno rappresenta al meglio l'origine della speculazione gnostica che non è riconducibile al  fenomeno depressivo, ammantato di retorica o aulico fraseggio, bensì attivo interrogarsi su di uno stato di disagio, di perenne insoddisfazione, di intuizione che vi è altro oltre il fitto ordito della realtà. Lo gnostico riconosce un disagio intimo, non dettato dall’avere ma dall’essere, e a esso vuole dare risposta e rimedio. Il primo atto dell'anima gnostica è rappresentato dal riconoscimento di una prigione  e dalla ricerca di una via verso la libertà. Non è, infatti, il primo atto di colui che desidera evadere, quello di rendersi conto della prigionia in cui versa ? Questa volontà di trascendenza non è forse ciò un attivo relarsi ?

<< questo fuoco è ingannevole, poiché dà agli uomini un'illusione di verità e li imprigiona in una dolcezza tenebrosa >> ( tratto dal Libro di Tommaso l'Atleta )

Una sorta di profonda malinconia pervade tutto il pensiero gnostico, fino a prendere la forma della nostalgia che accompagna il pneumatico lungo il proprio viatico terreno. Se ogni aspetto di questo mondo è avvertito come estraneo e alieno, è perché lo gnostico, nella visione che incarna, è figlio di un'altra terra, di un reame lontano, e si trova,  per caso capriccio o colpa, proiettato in una nazione lontana dagli usi incomprensibili. Attraverso i sensi, l'anima è inebriata, portata a dimenticare una condizione di stato  precedente a questa in cui adesso si ritrova, ma che persiste a livello di rimembranza. Ecco che nella nostalgia individuiamo la radice di ogni costruzione mitologica gnostica.  La nostalgia è quindi intesa sia come profondo lamento per ciò che fu, sia come perenne richiamo verso quello che sarà definito il Ritorno al Pleroma.        

<<1 Quand'ero un piccolo fanciullo dimoravo nel mio regno, nella casa di mio padre 2 lieto della ricchezza e del fasto dei miei nutritori. 3 Dall'Oriente, nostra casa, i miei genitori mi equipaggiarono e mi mandarono,.... (tratto dall'Inno della Perla)>>

Ritorno al Pleroma, o casa del Padre, è lo Zenit del percorso gnostico, la conclusione del sentiero di e verso  la luce che l'anima deve compiere, guidata dalla voce della nostalgia, potente Koan interiore. La nostalgia è la creazione del mito dal mito, o per meglio dire la germinazione della mitologia e cosmogonia gnostica ove il Nadir è rappresentato dalla condizione umana. Un mito titanico, per pochi eletti i quali,  dal basso della  prigionia, cercano di risollevarsi verso ciò che è perduto. E’ necessario rilevare come sia proprio la nostalgia, frutto della considerazione di ciò che si è, e di ciò che si prova a divenire, la pietra fondante di tutto il pensiero gnostico, il cardine attorno cui tutto ruota. E' nel dilemma dell'uomo, nel dramma di uno spirito incorruttibile in un corpo corruttibile che si forgia il pensiero gnostico. Un pensiero che si articola nel rapporto fra uomo e uomo, uomo e creazione e uomo dio.

Lo gnostico non trova risposte alla propria condizione nella Creazione, nella ciclicità del tempo, nel deperimento della materia. Egli si pone domande, cerca risposte che incarnano uno spirito antisociale e anticomunitario, in quanto non vede nella comunità, nel sociale, negli ideali, nella religione, soluzione al lamento e termine al movimento di ricerca.
 

L'unica soluzione a un universo feroce, che divora la vita per donarsi la vita, è volgere lo sguardo interiore verso un Dio prima di dio, estraneo al dolore del cosmo. Se attorno all’uomo vi è disperazione e morte, ciò non può essere frutto del vero Dio ma di un Demiurgo, di una divinità inferiore e  maligna che si manifesta nell'ordine costituito, nella catena degli eventi. Ecco quindi il Dio oltre Dio: Altissimo, luminosissimo, e assolutamente incomprensibile per l'uomo non gnostico. Un Dio così diverso e lontano dal carnale Dio del mondo monoteistico giudaico, circondato da un Abisso di Silenzio.  Come estremità opposta lo gnostico ha un'idea infima della materia e della Creazione, proprio in virtù di quanto esposto in precedenza: la non risposta che essa fornisce al dilemma umano.
L'indagare i costrutti gnostici attorno a questo tema  esula l'attuale portata di questo lavoro, teso esclusivamente a evidenziare la molla che tutto pone in movimento: la nostalgia.

<< Rifletto in che modo questo avvenuto. Chi mi ha trasportato in prigionia lontano dal mio luogo e dalla mia dimora, dalla casa dei miei genitori che mi hanno allevato ? >> ( G 328)

L'anima gnostica si interroga sul come e sul perché è oggi relegata in un corpo. Ecco il punto fondamentale che allontana ogni ombra di depressione dall'universo gnostico. Il pneumatico si pone delle domande sulla sofferenza che attanaglia il cuore, e a essa cerca risposta individuando una via di uscita:

<< O quanto mi rallegrerò allora, io che sono ora afflitta e paurosa nell'abitazione dei malvagi! O quanto si rallegrerà il mio cuore fuori delle opere che ho fatto in questo mondo! Per quanto tempo sarò vagabonda e per quanto tempo affonderò in tutti i mondi?>> (J 196)

L'anima gnostica non si lascia schiacciare dal peso della vita senza senso, ma anzi individua in essa un momento di purificazione, per quanto dolorosa e necessaria alla risalita. Constata lo stato delle cose, comprende che deve darsi, e mantenere al contempo coscienza di sé.

<<Sono una vite, una vite solitaria che sta nel mondo. Non ho un sublime piantatore, non ho un coltivatore, non un mite aiuto che venga ad istruirmi su tutte le cose>> (G.346)

L'anima gnostica è sola, ma questo non la abbatte, non distrugge l'anelito salvifico. Nessuna indicazione “diretta e lineare” della via dei ritorno, ma ciò non le impedisce di essere una pianta solare ( l'uva è un frutto cristico). Apprendimento, ecco la via di uscita. Attraverso il porsi nel mondo, nel trarre esperienza da ogni accadimento, vi è la risposta a ogni quesito. Se manca l’istruttore, allora è lo gnostico che si istruisce.

I Sette mi hanno oppressa e i Dodici sono diventati la mia persecuzione. La Prima Vita mi ha dimenticato e la Seconda non si da pensiero di me>> (J 62)

Oltre alle considerazioni che hanno accompagnato il nostro percorso fino a questo momento, non possiamo disconoscere come emerga una triplicità di elementi che, nelle loro relazioni, determinano e formano l'essere gnostico: il suo sentire. Spirito, Anima(gnostica) e Creato, ove la seconda sostanza è posta al centro, dilaniata e attratta, dall'uno e dall'altro polo. Un polo superiore che avverte, che intuisce, che anela, e un polo inferiore che la invade, la inebria tramite il desiderio, i sensi, i bisogni della materia. La nostalgia gnostica perdura per tutta la vita durante il tragitto infinito nel labirinto dei sensi, delle ombre e delle luci della mente... A un passo dalla follia, a un passo dalla santità. In quanto la gnosi salvifica e liberatoria non è un tendere, bensì un essere o non essere, e fino a quando non è raggiunta perdura lo stato nostalgico, che anzi tende a dilaniare con maggiore violenza l'animo dello gnostico che ancor più si inerpica lungo la via senza ritorno.  Chi sono i sette se non  le pulsioni, i desideri dei sensi, e i dodici non sono forse la ciclicità del tempo attraverso il ripetersi dei giorni, dei mesi e delle stagioni ? Tempo e desideri ci legano a questo mondo.

Da questo straziante condizione di essere e non essere, da questa amara constatazione sulla natura umana, si determina  la convinzione nello gnostico, di essere diverso: straniero in terra straniera.

Sulla nostalgia gnostica, la Mater del Mito, incontriamo la germinazione del mito gnostico che,  oltre gli Arconti, i bisessuati, la Sophia, la Zoe, gli Eoni Incorruttibili, la Barbelo e il Pleroma, trova conclusione nel ritorno, dopo l'epica lotta dei pochi, del solo contro la moltitudine delle cose tutte. In un titanico sforzo di ricomposizione di ogni porzione psicotica dispersa, di ogni brandello di memoria, in quel mosaico chiamato Uomo, in un anelito sussurrato del Dio prima di Dio: dell'Uomo prima dell'Uomo. 

99 Chinai il capo e adorai la maestà del padre mio che mi aveva mandato:

100 io avevo adempiuto i suoi comandamenti ed egli mantenne quanto aveva promesso

101 alla sua porta mi associai con i suoi principi:

102 egli si rallegrò di me e mi accolse ed io fui con lui, nel suo regno,

103 mentre lo lodava la voce di tutti i suoi servi.

104 Promise che anche alla porta del re dei re sarei andato con lui

105 con la mia offerta e con la perla mi sarei, con lui, presentato al nostro re.


Sicuri che vi è altro oltre i sensi, la carne e la mente, e che vive in noi attraverso il ricordo di un Ideale Superiore. Questa reminescenza ci anima e ci guida nella follia di un mondo che muore a ogni istante per poi rinascere come un Dio cannibale che si nutre dei figli che ha creato, e quindi crearne di nuovi. Se questa molla fa difetto, se questo ricordo è assente, se questa volontà è un fuoco fatuo o spento, allora la nostra vita non sarà altro che un non senso, che un'occasione sprecata, che un servire da pasto alla Luna vorace e famelica. La nostalgia non come rammarico e fuga ma come pallido ricordo di ciò che fu, e che può tornare ad essere: peso insostenibile per alcuni, via di redenzione per altri.

ELENANDRO XI
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MARCIONE


Analizzando la storia e gli avvenimenti del Cristianesimo primitivo, gli studiosi assolutamente non possono non incrociare una delle personalità più interessanti dell’epoca: Marcione, vescovo e teologo greco antico, fondatore della dottrina cristiana che prende il nome di Marcionismo e senza dubbio uno dei primi a creare un canone del Nuovo Testamento. La sua storia è giunta sino ai nostri giorni unicamente attraverso gli scritti di alcuni suoi oppositori, grandi eresiologi del II e III secolo d.C., come Ireneo, Clemente Alessandrino, Origene, Ippolito, Tertulliano, Epifanio, Atanasio e molti altri. Purtroppo le sue opere teologiche, ossia i Vangeli e le Antitesi, sono andate perse. Ne abbiamo tracce autentiche solo nelle citazioni fatte dagli studiosi della sua eresia.
Della sua vita privata non si riscontrano molte informazioni dettagliate. Si pensa sia nato approssimativamente nell’85 d.C. a Sinope, una città dell’attuale Turchia che si trova nella penisola di Botzepe, sulla costa del Ponto sul Mar Nero. Suo padre era il vescovo della Chiesa Cristiana di quella regione. Già in giovane età si distingueva per la sua intelligenza, era uno studioso notevole, molto rispettato, che spiccava tra gli uomini del tempo. A causa del tradimento che fece alla Chiesa per via della sua ideologia venne scomunicato dal suo stesso padre. Grazie alla sua professione di commerciante e armatore di navi, che gli permise di accumulare ingenti beni, si trasferì a Roma all’incirca nell’anno 140 d.C., con l’idea di propagare la sua fede e di disporre le sue ricchezze al servizio di questa causa.
Contemporaneo di Basilide e Valentino, si crede che Marcione aderisse alla corrente gnostica e ai vari pensieri dei suoi esponenti, condividendo il fondamentale concetto gnostico delle dottrine dualiste e dell’“estraneità” del vero Dio, concezioni che diverranno propriamente sue e conserverà nella sua ideologia.
Attingeva in modo elementare dalle Docetiche gnostiche delle personalità dell’epoca; mettendo da parte tutto l’impianto mitologico, trasse una chiara distinzione tra il Dio tetragrammatico dell’Antico Testamento “YHWH” e quello del Nuovo Testamento. Il primo è il Dio degli Ebrei, autore della Legge, che secondo Marcione è un Dio conosciuto, creatore e giudice del mondo materiale nonché dell’uomo, identificato come il demiurgo della cultura classica, mentre il secondo è un Dio trascendente, assolutamente buono, che si è svelato attraverso Gesù Cristo. Questi però non è incarnato, ma solamente manifestato con le sembianze di un uomo tra gli uomini, mandato per salvare l’umanità dalla tirannia del Dio cattivo dell’Antico Testamento. Secondo l’eretico solo quest’ultimo era il vero Dio che avrebbe portato alla salvezza.
Alcuni studiosi prendendo atto della sua fede cristiana in relazione alla salvezza per grazia divina, ed essendo il suo impianto teologico lontano e privo delle complesse speculazioni cosmogoniche gnostiche, non lo collocano tra gli gnostici del momento. Potremmo definirlo “cristiano gnostico”, perché egli credeva che la Fede in Cristo, più che la Gnosi, fosse causa di redenzione.
Per quattro anni frequentò le riunioni della Chiesa Cristiana Romana, condividendo con essa le proprie idee, anche se col tempo iniziò a suscitare molte polemiche tra i padri della stessa. Tutto ciò obbligò la Chiesa a chiedere a Marcione una spiegazione formale riguardo alle sue affermazioni fortemente avverse all’ortodossia. La sua difesa fu inutile e la sua idea dualistica di un “Dio cattivo e un Dio buono” fu inaccettabile per la dogmatica cristiana. Per questo venne dichiarato eretico e quindi scomunicato dalla grande Chiesa. Gli costò l’esilio e l’oppressione, e il teologo greco Policarpo arrivò persino a definirlo il “primogenito di Satana”. In seguito, secondo gli eresiologi, Marcione stabilì rapporti con lo gnostico siriaco Cerdone.
Fondò e organizzò la Chiesa Marcionita, liberando il suo cristianesimo da ogni legame con l’Ebraismo mosaico. Marcione costituiva la maggior minaccia per la Chiesa primitiva in quanto era molto organizzato e disponeva di sufficienti beni per divulgare le sue teorie. I suoi insegnamenti furono rimarchevoli e accolti nel cristianesimo del II secolo d.C., e nel III secolo ebbe grande fioritura in diverse regioni del Mediterraneo e in Oriente: Grecia, Egitto, Palestina, Arabia, Siria, Asia minore, Persia… Italia, Gallia.
Creò una Chiesa, a differenza di molte altre personalità gnostiche dell’epoca le quali si limitarono a creare soltanto Scuole di pensiero. Emersero Chiese marcionite perfettamente organizzate, composte da vescovi, con una disciplina ecclesiastica e un culto al servizio, della stessa natura di quello che più tardi divenne quello della Chiesa Cattolica. I marcioniti erano più rigidi persino degli asceti, astenendosi dalla carne, dal vino, dal matrimonio (i nuovi convertiti, se sposati, dovevano immediatamente sciogliere l’unione matrimoniale).
Clemente Alessandrino afferma: «Per via di opposizione al Demiurgo, Marcione respinge l’uso delle cose di questo mondo» (Clem. Alex., "Strom." III, 4, 25), dunque secondo il suo pensiero, il principio morale di Marcione non era: “compiere” come comanda Dio ad Adam-l’Umanità in Genesi, ma “ridurre” il mondo del creatore e farne il minor uso possibile. Fortemente assodata è l’opposizione alla procreazione mediante il matrimonio. Continua Clemente Alessandrino: «Non volendo aiutare a popolare il mondo fatto dal Demiurgo, i Marcioniti stabiliscono l’astensione dal matrimonio, sfidando il loro creatore e rendendo culto all’unico Dio buono che li ha chiamati. Pertanto, non volendo lasciare nulla di proprio quaggiù, diventano casti non per un principio morale, ma per ostilità al loro fattore, e per non voler servirsi della sua creazione». (Clem. Alex., loc. cit.)
Già verso la fine del III secolo la Chiesa marcionita era in ripiegamento, però continuò ad essere abbastanza vitale in varie regioni d’Oriente ancora nel V secolo, e sopravvisse sporadicamente ancora a lungo. Il pensiero marcionita continuò tuttavia ad essere latente e influente lungo la storia del Cristianesimo fino ai giorni nostri. 
Si ritiene che Marcione muoia nel 160 d.C. E poiché il suo lavoro speculativo e filosofico non mancò di errori e quesiti, dopo la sua morte i suoi discepoli cercarono di sviluppare delle teorie per sopperire alle imperfezioni lasciate dal maestro.
L’eretico Marcione creò un suo “Nuovo Testamento” e mise in moto un processo grazie al quale, indirettamente, la Chiesa ufficiale emergente si rese conto della necessità di organizzare i vari Testi, che sono la fonte del cristianesimo, in un proprio Canone.
Nella sua dottrina o “Vangelo di Marcione”, l’eretico raccolse soltanto il Vangelo di Luca, eliminandone le parti scomode che secondo il suo pensiero risultavano essere troppo impregnate di giudaismo.
Certi studiosi sostengono che il suo vangelo sia costituito da una parte del Vangelo di Luca, senza aggiunta alcuna e si differenzia da quello integrale di Luca perché:
          Manca l’intero capitolo 1: sia la prefazione che dice esplicitamente trattarsi di una revisione di testi e tradizioni precedenti, che la narrazione della nascita del Battista, l’Annunciazione, il Magnificat (“ha soccorso Israele come aveva promesso ai nostri padri”) ed inoltre il Benedictus il signore Dio di Israele;
          Manca l’intero capitolo 2: nascita e infanzia di Gesù;
          Dal capitolo 3 mancano l’invito alla sollevazione del Battista e la genealogia di Gesù;
          Mancano varie frasi nei capitoli intermedi, tutte con riferimenti ad Israele e all’Antico Testamento;
          Manca quasi tutto l’ultimo capitolo 24 ed in particolare la narrazione delle apparizioni.

Come si può notare, si tratta di capitoli e paragrafi che legano Gesù Cristo alla tradizione e alla storia ebraica e che danno senso politico alla sua opera.
Accoglie le Epistole di Paolo di Tarso quali le Lettere ai Galati, le due ai Corinzi, ai Romani, le due ai Tessalonicesi, ai Laodicesi (che nel canone cattolico è chiamata lettera agli Efesini), ai Colossesi, ai Filippesi e a Filemone.
Secondo Marcione, Paolo evangelista fu il primo a capire veramente la missione di Cristo, e ad aver salvato il suo insegnamento dall’oscuro settarismo ebraico.
Tuttavia l’apostolo Paolo inizia molte delle sue Lettere con la frase: “Grazia e pace a voi, da Dio nostro padre e dal Signore Gesù Cristo (Romani 1:7; Efesini 1:1; 1 Corinzi 1:3).” Per Paolo Dio ci fa dono della grazia e ogni grazia scaturisce da Lui.
L’apostolo è convinto che tutto è già stato realizzato gratuitamente per mezzo di Gesù Cristo. Ecco perché nessuno può vantarsi, perché le nostre opere non ottengono la grazia di Dio per merito, ma semplicemente la manifestano: sono un’espressione del fatto che l’uomo è stato trasformato.  È proprio a causa della Gratuità del perdono di Dio che Paolo sente il potere della Grazia. I peccati non possono mai annullarLa.
L’apostolo si è mostrato contro la circoncisione della carne la quale è segno e simbolo di Alleanza con Dio, di Conversione a Lui, non perché voleva fare un cristianesimo facile, ma perché aveva capito che lo Spirito richiede una circoncisione superiore, quella del cuore, una trasformazione interiore. L’esortazione a “circoncidere il cuore” è un invito alla conversione che Paolo ha imparato dalla Torah e dai Profeti, Parola di Dio di cui si è nutrita la sua fede ebraica, Parola a cui lui aderisce (cfr. Levitico 26,41; Deuteronomio 10,16; 30,6; Geremia 4,4; 9,24-25). In Romani 2,29 Paolo dice che è questa la vera circoncisione al di là del sigillo posto nella propria carne, come segno di adesione all’alleanza, il quale non è obbligatorio per i non ebrei che si convertono al cristianesimo.
La Legge non può giustificare l’uomo, ma solo la Grazia ricevuta attraverso Gesù Cristo. Vivere questa grazia è tuttavia una sfida ancora più radicale di quella che presenta la legge e richiede una resa totale. Questa chiamata alla grazia e alla risposta totale alla morte è una parte essenziale del suo insegnamento e della sua vita.
Marcione esclude tutte le influenze giudaiche dell’Antico Testamento, i Vangeli di Giovanni, i sinottici Marco e Matteo, considerando questi ultimi contaminati da alterazioni ebraiche ispirate da un Dio minore.
Marcione infatti non accettava l’immagine di un Dio pieno d’ira che si manifestava sul monte Sinai suscitando timore al suo popolo e non ammetteva nessuna continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Il suo culto, costituito da amore, misericordia e compassione, subisce sicuramente l’influsso del medioplatonismo, riassumendo essenzialmente il concetto che la salvezza non si possa ottenere attraverso la Legge e le Opere, ma mediante un Dio straniero e buono. Marcione minaccia i circoncisi di dover sopportare il peso della legge del Dio minore da cui Cristo era venuto a liberarli tramite il messaggio di fede che agisce attraverso l’amore (questa antitesi tra Fede e Legge diventerà il fondamento dell’esegesi marcionita della Bibbia). Questi concetti furono il suo fulcro dottrinale; i marcioniti conseguono la salvezza grazie all’amore di Dio in Gesù Cristo, il quale abolisce la “Legge” per la compassione del Padre verso il genere umano affinché si ponga fine alla schiavitù. Cristo discese all’Inferno, luogo in cui il Demiurgo poneva sia i peccatori che i giusti; tuttavia nella sua discesa non salvò Abele, Abramo e Mosè, padri dell’Antico Testamento, che avevano obbedito alla giustizia inesorabile del Dio minore e alla legge del taglione; salvò invece tutti coloro che hanno meritato punizioni terribili per aver disobbedito alle regole della giustizia del Demiurgo.
Dunque, se il luogo dei tormenti viene svuotato da coloro che non hanno riconosciuto il Dio minore, questo rimane pieno dei giusti, dei patriarchi e delle loro discendenze, cioè il popolo d’Israele che non si è convertito a Gesù.
La critica più forte a Marcione viene riscontrata nel testo di Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, “L’Adversus Marcionem”, opera costituita da cinque libri contenenti informazioni sufficienti a creare un quadro del sistema marcionita in cui lo scrittore attacca il teologo e il suo vangelo. L’opera, diversamente da quanto sostiene Marcione, afferma che il creatore del mondo non è diverso dal Dio buono e che Cristo è proprio il Messia annunciato nell’Antico Testamento e non è un eone eccelso in un corpo apparente (l’eone che gli gnostici intendono come un essere spirituale procedente per emanazione dal Principio supremo).
Altre informazioni sull’eretico possono essere trovate in molti dei lavori di Tertulliano come il “De Praescriptione”, il “De Carne Christi”, il “De Resurrectione Carnis” e il “De Anima”.
Alcuni dei padri della Chiesa, quali Giustino, Ireneo di Lione ed Epifanio di Salamina, sostengono la posizione dello scrittore Tertulliano in relazione al fatto che Marcione abbia riformato il testo di Luca per adattarlo alle sue tesi.
Essi rimproverano al teologo cristiano Marcione di minare l’attendibilità e veridicità di Luca e Paolo. Anche se ridotti, essi proclamano l’unicità del vero Dio di quel Gesù che essi professano.
Credono inoltre che Gesù è vero uomo, ebreo di nascita di formazione di fede religiosa, credente nel Dio dell’Antico Testamento e praticante secondo la Bibbia Ebraica.
Per la chiesa antica, che lo trasmette ai suoi fedeli di ogni generazione, è determinante che il Credo cristiano si fonda su un Libro unico che raccoglie i Testi dell’Antico e del Nuovo Testamento in un canone continuativo, senza interruzione della storia della salvezza.
Lo sguardo su Marcione porta a considerare il Cristianesimo dell’”Ortodossia” e lo Gnosticismo. Possiamo dedurre che attraverso i secoli si è costatato come tutte le dottrine gnostiche avessero dei punti in comune, e come la questione della salvezza è ricorrente in tutte loro. Molte di queste sono state accolte favorevolmente dalle masse, e per questo ebbero grande diffusione nei primi due secoli della nostra era. Il movimento Gnostico ebbe senza dubbio, un ruolo molto importante per la Chiesa, poiché è stata la prima esplorazione filosofica del cristianesimo. Questa ricerca è stata condotta dai vari gnosticismi dell’epoca contenenti elementi cristiani, mistici, neoplatonici e orientali.

DEDALUS


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Etienne Marconis: Il Rito di Memphis ed il Ramo d'Oro di Eleusi - Seconda Parte


Jacques-Étienne Marconis de Nègre nato a Montauban il 3 Gennaio de 1795 e morto a Parigi il 21 Novembre 1868, è certamente una delle figure più interessanti nell'ambito della libera muratoria francese del secolo XIX.
Il Rito Muratorio di Memphis, da lui elaborato probabilmente facendo ricorso a tutto quello che aveva appreso nel corso delle sue varie numerose iniziazioni ai gradi più elevati sia del Rito Scozzese che del Rito di Mizraïm, costituisce con ogni probabilità uno dei corpus rituali più completi e vari di quelli giunti ai giorni nostri.
Forse è per questo motivo che questo Rito, che si era affermato in Francia sotto la monarchia degli Orléans, venne arbitrariamente e forzatamente fatto assorbire all'interno dei Riti del Grande Oriente di Francia, con contestuale riduzione dei gradi da 95 a 33, per non fare ombra e concorrenza al Rito Scozzese che andava per la maggiore in Francia sotto il secondo impero di Napoleone III e che godeva dei favori governativi.
Quello che ufficialmente era chiamato Rito di Memphis o Rito Orientale di Memphis o anche Antico e Primitivo Rito Orientale di Memphis è ampiamente descritto nel saggio scritto e pubblicato nel 1849 da Marconis intitolato “Hermès ou Le Sanctuaire de Memphis” .
Marconis descrive i principi di questo Rito, che si allontana un poco dalla muratoria tradizionale transalpina, in questo modo:
“Il Rito massonico di Memphis è l'erede dei misteri dell'antichità; esso educa gli uomini a rendere omaggio alla divinità; i suoi dogmi riposano sui principi dell'umanità; la sua missione è lo studio della saggezza che serve a discernere la verità; è l'aurora benefica dello sviluppo della ragione e dell'intelligenza; è il culto della qualità del cuore umano e la condanna dei suoi vizi; è infine l'eco della tolleranza religiosa,l'unione di tutte le credenze,il legame fra tutti gli uomini,il simbolo delle soavi illusioni della speranza che predica la fede in Dio che salva,e la carità che fa benedire”.
Questi principi, sapientemente diffusi da Marconis, la cui serietà e spessore culturale erano fuori discussione, contribuirono fortemente al successo di questo Rito, ma questo successo, come abbiamo visto, portò molto presto all'invidia ed alla neutralizzazione della comunione.
Originariamente Jean-Etienne Marconis de Nègre aveva articolato il Rito di Memphis in 92 gradi divisi in tre serie:  la prima serie, di 35 gradi, era costituita dai primi tre gradi simbolici tradizionali di Apprendista, Compagno e Maestro ed altri 32 che in parte riprendevano omonimi gradi scozzesi, come ad esempio il Maestro Eletto dei Nove, il Gran Maestro Architetto, il Cavaliere dell’Arco Reale, il Cavaliere della Volta Sacra, il Principe Rosa Croce di Heredom, il Cavaliere Kaddosh, il Grande Inquisitore Comandante, il Sovrano Principe del Real Segreto, il Cavaliere Grande Ispettore per concludersi con il Gran Comandante del Tempio.
La seconda serie, dal 36° al 68° Grado, comprendeva gradi di ritualità che spaziava fra le tradizioni egizie ed orientali ed al tempo stesso riprendeva temi alchemici che erano stati elaborati nel secolo precedente dal Barone Théodore de Tschoudy, braccio destro di Raimondo di Sangro.
Ma non può neppure essere tralasciato il cenno alla tradizione norrena che fa capolino nel grado chiamato Cavaliere Scandinavo.
La terza serie, che va dal 69° al 92° Grado, approfondisce alcune tematiche della serie precedente e soprattutto comprende alcuni gioielli rituali, come il Sublime Cavaliere del Triangolo Luminoso (o del Delta Sacro), o il Sublime Maestro dell'Anello Luminoso, che possiamo annoverare fra i più bei testi della muratoria egizia.
A questi gradi ne vennero poi aggiunti altri tre, 93° Sovrano Principe del Santuario di Memphis, 94° Sublime Patriarca Principe di Memphis e 95° Principe e Patriarca Gran Conservatore dell'Ordine e del Rito, a completamento della piramide iniziatica.
Possiamo affermare che quello ideato o elaborato da Marconis fosse un sistema fornito di una certa coerenza e logicità, in quanto, aldilà di alcune ridondanze con Gradi piuttosto fantasiosi ed i cui nomi avevano il probabile scopo di fare colpo sui massoni francesi in cerca di novità (es. Saggio Shivaista, Principe Bramhano, Pontefice di Ogygia, ovvero l'isola ove secondo l'Odissea la ninfa Calipso tenne prigioniero Ulisse per quasi nove anni,etc.); va riconosciuto a Marconis di aver aveva saputo abilmente miscelare il Rito Scozzese, il Rito di Misraim, l’Ordine degli Architetti d'Africa e, probabilmente anche l’Ordine dei Filadelfi di Narbonne per dar vita ad un “Corpus Rituale”interessante e di notevole spessore iniziatico che purtroppo nella sua interezza è di fatto sconosciuto ai più.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che Marconis, emulando i fantasiosi fratelli Bédarride, abbia inventato di sana pianta qualche rituale; tuttavia, se così è stato, occorre parimenti ammettere che queste invenzioni non erano campate in aria ma messe su carta attingendo a Testi antichi ed alle fonti della Sapienza Tradizionale, come dimostrano chiaramente le invocazioni di apertura e di chiusura dei Lavori muratori, da lui illustrate nel citato "Le sanctuaire de Memphis".
Quello che più comunemente viene contestato a Etienne Marconis è di aver voluto fare voli pindarici sulle origini “mitiche” del Rito da lui fondato con il solito quanto scontato riferimento ai Templari  (definiti non origine ma culla della Libera Muratoria): nella sua introduzione al testo, chiamata “Storia Abbreviata della Massoneria”, Marconis parte da lontano ovvero dagli albori delle prime civiltà umane sorte nella Valle dell’Indo per poi passare in Egitto (e così si spiegano i gradi dedicati a Brahma e ai Veda), in Grecia e nel vicino Oriente, con un curioso quanto interessante passaggio su Mani, perseguitato dai sacerdoti di Mithra.
Sarebbero stati i Cavalieri Templari ad abbracciare i tre grandi insegnamenti di Mani, il dualismo, fede nei due principi, il sabaothismo, adorazione delle forze della natura ed il jobaismo, o culto di un dio unico, ed a celebrarne in segreto quei misteri.
Marconis narra che i Templari avrebbero avuto questi insegnamenti in Palestina da alcuni seguaci di un saggio egiziano chiamato Ormus che sarebbe stato convertito al cristianesimo addirittura dall’apostolo Marco. Ormus avrebbe riunito attorno a sé un gruppo di discepoli e fondato una scuola di scienze salomoniche che si sarebbe perpetuata nei secoli sino ai tempi della prima crociata. Questa dottrina sarebbe poi stata comunicata ai primi Cavalieri del Tempio che l’avrebbero esportata in Europa.
Di questa leggenda si trovano spunti in numerosi testi rituali della seconda serie.
Non occorre molta fantasia per concludere che in questo caso, proprio come il Mizraim dei Bédarride, Marconis si sia sbizzarrito con espressioni e leggende "forti" che avevano lo scopo manifesto di attirare affiliati per il suo Rito, soprattutto provenienti dal Rito Scozzese, che si arrestava al 33° Grado, e che non disponeva di questo ventaglio di opzioni iniziatiche.
Come scrive in prima persona nei suoi testi, Étienne Marconis aveva diviso gli Antichi Misteri di Memphis in due classi, i piccoli ed i grandi. I piccoli avevano lo scopo di istruire gli iniziati nelle scienze umane, essendo la sacra dottrina riservata agli ultimi gradi di iniziazione, ovvero la grande manifestazione della Luce.
Fra la conoscenza delle scienze umane e quelle della sacra dottrina vi erano gradini simbolici da salire attraverso un percorso a carattere iniziatico.
Tutti i misteri ruotavano su tre punti principali: la morale, le scienze esatte e la sacra dottrina. Dal primo al secondo punto o grado il passo era abbastanza semplice ed avveniva senza intermediari; ma, giunti a questo secondo grado dell’iniziazione, occorrevano lunghe preparazioni che erano l’oggetto di tre altri gradi simbolici: il primo terminava e completava i piccoli misteri; gli altri due aprivano i grandi.
Era solo al primo grado simbolico, ovvero il terzo dell’iniziazione, che erano esposte le prime leggende e, proseguendo nei secondi due ci si esercitava a penetrare il senso di queste leggende e si diventava degni della grande manifestazione della Luce.
Tutto ciò comprendeva le preparazioni, i viaggi ed i simboli e quella che veniva chiamata tecnicamente “autopsia”, che non va confusa con il moderno termine medico di esame del cadavere.
Le preparazioni si dividevano in due classi: la prima aveva come titolo simbolico “Saggezza” e per oggetto la Morale. Gli iniziati si chiamavano Thalmedimiti o discepoli. La seconda aveva come titolo simbolico “Forza” e per oggetto le scienze umane. Gli iniziati di questo secondo grado si chiamavano Heberimiti o associati.
I viaggi ed i simboli erano divisi in tre classi: nella prima, chiamata i funerali, gli iniziati portavano il nome di Murehemiti; nella seconda, chiamata vendetta, prendevano il nome di Berimiti e nella terza, chiamata l’affrancamento, quello di Nescheriti.
Il grande complemento dell’iniziazione, l’autopsia, era il coronamento dell’edificio, la chiave di volta.
L’iniziazione consisteva nella conoscenza del dogma monoteista che veniva rivelato ai soli grandi iniziati: esiste uno ed un solo dio.
Il Panteismo era la religione dell’antichità e questa parola viene dalle parole greche Pan e Theos, che significano Tutto e Dio, e cioè che Dio è tutto.
Tutto questo, ovviamente, viene scritto da Marconis in linea teorica, perchè era umanamente impossibile che un membro del Rito di Memphis potesse giungere ad avere conoscenza completa di tutti quei segreti che anticamente erano rivelati al settimo ed ultimo grado.
Per fare ciò sarebbe stato estremamente necessario adottare i tempi e le accurate precauzioni dell’antichità – a cominciare dal noviziato - e quindi prevedere tempi molto dilatati ed un impegno costante: tuttavia, in una società in via di secolarizzazione come la Francia dell'800, questo non era possibile, per cui si era reso necessario limitarsi a quelli che vengono definiti i “gradi superiori”.
Étienne Marconis, che, si badi bene, aveva messo per iscritto di considerare il Rito di Mizraim una pura invenzione dei Fratelli Bédarride,  aveva così creato una scala iniziatica in origine a 92 Gradi che si differenziava non solo dalla scala del Mizraim (sia nella versione veneziana che in quella spuria dei Bédarride), sia, per quanto attiene ai primi 33 gradi, dalla tradizione di quello che era in allora chiamato Rito Scozzese.
Marconis aveva posto al vertice di questa scala il grado di Sovrano Principe dei Magi del Santuario di Memphis, dove si trovava la venerata Arca della Tradizione.
Il Santuario di Memphis era composto da cinque grandi Dignitari e da sei Magi nominati a vita e cioè i cinque dignitari erano il Gran Hyerofante, il Sovrano Pontefice Gran Maestro della Luce, il Sovrano Principe dei Magi Sothis, il Sovrano Principe dei Magi Hori, il Sovrano Principe dei Magi Arsine, mentre i sei Magi erano due Magi Sothis, due Magi Hori e due Magi Arsine.
Colui che era di fatto il braccio destro di Marconis e che ebbe un ruolo importante nell’elaborazione del corpus rituale fu Antoine Muttet, colto massone dell'epoca ed autore od elaboratore di molti Rituali della seconda e terza serie.
Dopo l'assorbimento  da parte del Grande Oriente di Francia, avvenuto nel 1862, il Rito di Memphis scomparve quasi completamente dalla Francia per stabilire, al contrario, solide radici in Egitto (Grande Oriente di Memphis d'Egitto), in Italia (sopratutto a Palermo, sede del Grande Oriente del Memphis per l'Italia), negli Stati Uniti d'America (e da lì nell'America Meridionale) ed in Inghilterra.
L'anno precedente Marconis aveva dato alle stampe quello che può essere considerato il suo testamento spirituale, Le Rameau d'Or d'Eleusis, che nella prima pagina descrive il suo contenuto: "La storia riassunta della Libera Muratoria, la sua origine, i suoi misteri, la sua azione civilizzatrice, il suo scopo e la sua introduzione nei diversi paesi del mondo; l'origine di tutti i riti ed i nomi dei loro fondatori, il quadro di tutte le Gran Logge, i luoghi ove hanno sede, l'anno della loro fondazione, il rito che praticano, i nomi di tutti i Gran Maestri che le governano, il numero di quelli che ne fanno parte; i 95 rituali della Libera Muratoria che racchiudono tutte le conoscenze dei riti i più praticati, la spiegazione di tutti i simboli, emblemi, allegorie, geroglifici, segni caratteristici di tutti i gradi ed il Calendario perpetuo di tutti i riti massonici; il Kadosh templare con  l'Agape degli antichi iniziati, il Gran Capitolo della Rosa+Croce, il "Tuileur"  universale, i cinque rituali della Libera Muratoria d'adozione per le signore, etc.".
Si tratta di un programma quanto mai vasto che nel testo originale di prima pubblicazione si estende per oltre 520 pagine e che ovviamente non viene rispettato nella sua interezza.
Questo testo, tuttavia, rappresenta nell'ambito della muratoria ottocentesca uno dei libri essenziali per la comprensione di un mondo quanto mai affascinante e velato dal mistero.
Il Codice Massonico, che inizia a pagina 66 del volume, è composto da soli undici articoli che descrivono nell'ordine i doveri verso Dio, l'immortalità dell'anima, i doveri verso la patria, la famiglia, verso l'umanità in generale, la beneficenza (nel senso di fare il bene), i doveri verso il prossimo, la perfezione morale di sé stessi, i doveri verso i fratelli, verso l'amicizia e verso l'ordine di appartenenza.
Si tratta di un compendio morale quanto mai completo, che riassume in poche pagine tutta quella elaborazione filosofica dei compiti dell'uomo libero che è iniziata nella Scozia del XVII secolo e che è continuata in Francia nel secolo successivo, quello dei lumi, sulla scia di coloro che, in fuga dalla monarchia hannoveriana, avevano portato sul continente le basi per la diffusione degli ideali muratori.
Dall'art. 11, quello che descrive i doveri verso l'ordine di appartenenza, estrapoliamo alcuni versi che un saggio sconosciuto (il Gran Hyerophante) dice a Talete dopo avergli rivelato gli ultimi misteri: "Va e diffondi su tutta la terra le verità sublimi che hai appena conosciuti, ma soprattutto non scegliere e non accordare questo favore se non a coloro che se ne renderanno degni e non dimenticare che...
L'uomo passa quaggiù viaggiatore effimero
La fine del viaggio è per tutti un mistero
Teniamoci sempre pronti.
Andiamo dritti alla meta e se la strada è scivolosa
Aiutiamoci, avanziamo e dei sentieri del vizio
Evitiamo il percorso
Ma lasciamo dietro di noi tracce sulla strada
Come ciò che costruisce, l'uomo indubbiamente passa
Ma non tutto passa.
Il bene che ha seminato sui suoi passi fruttifica.
E' un tempio immortale che passando costruisce

Il Libero Muratore quaggiù.

ELEAZAR

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SHIN


La lettera Shin ebraica é per i martinisti un simbolo fondamentale, in essa si condensano il mistero del progredire individuale ed il concetto di reintegrazione.
Della sua funzione sacra si notano tracce sin dai tempi del cristianesimo gnostico in particolar modo in Basilide. Ma un suo utilizzo in ambito sacro è sicuramente molto più antico ed ha avuto origine in culture differenti; all’apparire dei primi alfabeti le stesse lettere non rappresentavano unicamente un suono, ma anche dei concetti relativi alla spiritualità, al senso del divino ed al percorso misterico ed iniziatico.
Con l'irruzione della Shin nel Tetragramma biblico, il Nome Sacro si trasforma da nome impronunciabile e ineffabile, in una FORMULA dall'evidente potere trasmutatorio, יהשוה (YHSVH).
Dopo la venuta del Riparatore, specie in Alessandria d’Egitto, comincia un periodo di coesistenza tra vecchie e nuove culture,non ultime quella ebraica, quella cristiana e quella ellenica. Come in una vera e propria fucina,una moltitudine di energie e di conoscenze si coagulano e si  dissolvono per poi riemergere in contesti di reciproca contaminazione ed influenza .Differenti  percorsi di ricerca,come promanando da radici comuni,cercano nuova linfasia nella cultura iniziatico-filosofica greca, in primis quella platonica,sia nella potente e travolgente affermazione del pensiero gnostico nelle sue svariate articolazioni.E’ in questo contesto carsico e pieno di feconde esondazioni che la Shin fa la sua irruzione nel nome sacro.
Ma facciamo un pò di ordine, anzi cerchiamo di guardare ancora più indietro nel tempo,alla ricerca di un seme precristiano della vicenda. Potremmo porci la domanda: perché i primi cristiani sentirono il bisogno o ebbero l’intuizione mistica di inserire proprio la Shin, all'interno della parola sacra? E quindi cosa simboleggia la Shin, quale é la sua funzione nella teurgia o in genere nel simbolismo esoterico, da dove riecheggia questo suono ?
Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe molto più tempo di quello che mié concesso per questo lavoro, però ritengo utile dare alcuni spunti che possono essere interessanti e che il ricercatore potrà scegliere di approfondire autonomamente nei loro aspetti  storici e operativi .
Sappiamo che nell’antica civiltà persiana di religione Zoorastriana, il fuoco era una divinità ed un simbolo permanente, associato a quell’energia latente che governa l’entropia e il cambiamento dell’universo.
Il Fuoco era chiamato, nei vari dialetti,Atah o Atarma più spesso  Atash. La parola Atash contiene la desinenza Esh ed in ebraico può essere scritta con una Alef ed una Shin. Questo Esh, che non ha un corrispondente nella lingua ebraica,esisteva nella lingua correntemente parlata dagli ebrei ovvero l’ aramaico; il suo significato era fuoco. La parola Esh con il medesimo significato di fuoco è riemersa dopo molti secoli tra i cabalisti della tradizione iberica. L’Esh cabalistico è pertanto una parola di esclusivo uso esoterico e continuerà a non avere nessun significato nella lingua ebraica.
La lettera Shin viene pronunciata con un suono simile al nostro sccc, come il crepitio di una fiamma, è una lettera presente in tutte le lingue semitiche ed anche nell’alfabeto egizio. Nell’egiziano geroglifico la lettera Sin era rappresentata da uno stagno rettangolare; nello stagno, simbolo di acqua e di vita, si specchiava il Sole al suo sorgere, la cui purezza e luminosità erano simboleggiati da tre raggi che terminavano con un piccolo cerchio.
L’uso della Shin come vera e propria lettera alfabetica è riconducibile già ai primi alfabeti semiti, quali il fenicio e l’ aramaico, nella sue prima forma sembra rappresentare un triangolo (piramide o montagna) con due raggi (di sole) che salgono ai latia formare una specie di W, quindi una struttura ternaria o trinitaria che si innalza verso il cielo.
   Secondo le affascinanti e suggestive ricerche di Brian Pellar le lettere dell’alfabeto fenicio, unite due a due , riproducono fedelmente la forma delle costellazioni ed in particolare, la Shin unita alla Taw, rappresenta la costellazione del Capricorno, che comincia il suo periodo col solstizio d’inverno, momento della rinascita e dell’allungarsi del ciclo solare. Di seguito viene riportata la sorprendente somiglianza tra l’immagine della costellazione e le lettere fenicie, debitamente orientate.  

Questa brevissima premessa dimostra come la lettera Shin sia stata, anche millenni prima della nascita della cultura giudaico cristiana, un vero e proprio simbolo sacro collegato a concetti della religione e secondo alcune ipotesi anche a raffigurazioni astronomiche.
Tornando all’alfabeto ebraico: la Shin שיןe’ la ventunesima lettera ed é una delle 3 lettere madri;rappresenta quindi una delle forze primordiali e archetipe necessarie alla creazione. In quanto tale, è fortemente collegata con l’origine delle cose e con la manifestazione delle parole, del linguaggio e del pensiero. Tutti questi elementi, fattori, effetti e premesseci inducono a comprendere come nel tempo le lettere ebraiche siano diventate formule simbolich e unificanti, capaci di coagulare nella stratificazione dei propri possibili significati una connessione con i misteri universali.
Per il suo aspetto e pe rl’assonanza con la parola Shen שן, che in ebraico significa dente, la Shinpuò essere correntemente usata con tale significato. La sua forma è infatti molto simile alla radice di un molare.
La parola dente ed i concetti ad essa associabili, sembrano a prima vista lontani dal celare significati di carattere filosofico, religioso o esoterico, ma in base a più attente analogie e meditazioni si può arrivare in breve a conclusioni interessanti.
Il dente,nelle più comuni meditazioni sulle lettere ebraiche, è associato alla sapienza,in quanto è lo strumento che scompone e consente la trasformazione della materia in energia. La sapienza da parte sua è quel livello di comprensione superumana che scaturisce dal virtuoso coesistere della conoscenza e dall’intuizione. Del resto frantumare, suddividere e sezionare sono istintivi atti di conoscenza (il bambino che smonta il gioco distruggendolo). Un primo passo verso la comprensione(cum prendere),quindi un vero e proprio processo di metabolizzazione delle energie dell’universo,la scoperta del macrocosmo nel microcosmo.
La costante frantumazione e scomposizione della materia è una calzante metafora anche del processo interiore di spoliazione psichica (purificazione dell’Ego).
Il risultato della triturazione è alchemico e permette di scindere gli elementi in parti elementari alla ricerca di stati più sottili della manifestazione. E’ singolare che la stessa parola italiana scindere contenga esattamente la stessa radice della lettera ebraica.
Secondo il Sepherha Bahir la ש è la radice dell'Albero della Vita, questo senso deriva dalla parola שרש che significa radice. In questo senso la radice della manifestazione della realtà è l’anima, mistero che ci conduce all’essenza ultima delle cose e del pensiero. Intuire la radice del nostro essere significa comprendere gli elementi più occulti e spirituali della nostra identità.
Trasformare l’invisibile in energia, pensiero e forma e viceversa trascendere la dimensione materica grossolana non è altro che un processo di Reintegrazione spirituale nella purezza della nostra essenza.
L’azione del triturare ci indica quindi quell’opera di semplificazione e di eliminazione del superfluo, di dominio del cambiamento dello stato “corporeo”, che da denso e grossolano,si modifica in sottile ed essenziale. Il termine aramaico "Shena"significa infatti modificazione.
L’altro e più noto significato che viene attribuito alla ש, ’è quello di Fuoco, elemento alchemico che ha il potere di trasformare eliminando le impurità, lo strumento di purificazione per eccellenza; infatti a guardarla bene la Shin sembra anche un fuoco con tre fiammelle e nella Formula Pentagrammatica viene dipinta di rosso.
Tale significato è perfettamente connesso in chiave alchemica col simbolo del dente, in quanto l’elemento fuoco è un elemento purificatore e genera il calore necessario ad ogni trasformazione. In questo senso la Shin può essere definita come quella energia che permette al fuoco di sprigionare se stesso,ovvero la tensione che sta alla base del suo naturale scatenarsi; si tratta quindi di un’ energia latente che è connaturata alla stessa materia, essendo quest’ultima destinata, per legge divina, ad una perenne trasformazione.
Il fuoco interiore, quale strumento alchemico, brucia la parte impura della materia e non può intaccarne lo spirito che pertanto in concomitanza di alti livelli di purificazione emerge. Come detto da Giovanni il Battista: "Egli vi battezzerà in Spirito Santo e con il Fuoco".(Luca 3.20)
Nell’ambito della cultura religiosa ebraica la Shin ha un’importante funzione simbolica, è incisa ad esempio sulla Mezuzah, ovvero l’astuccio che contiene la Shemà Yisrael ( Deteuronomio 6:4), la preghiera liturgica più sentitache viene recitata due volte al giorno. L’astuccio viene posto, dagli ebrei, all’entrata di ogni casa e di ogni stanza  (tranne che per il bagno).In questo caso la Shin sta ad indicare anche la parola י ד ש “Shaddai”, che significa propriamente il Potente ed è uno dei nomi sacri per nominare colui che per gli ebrei non può essere nominato.
Entrando in materia più marcatamente cabalistica non possiamo non notare che la Shin ha una forma trinitaria; tale circostanza trova puntuale conferma nel fatto che la lettera è la n. 21 dell’alfabeto; infatti il 21 è,per riduzione ghematrica, pari al 3; inoltre lo stesso valore numerico della lettera Shin è pari a 300.
Proseguendo in campo cabalistico e pertanto non strettamente ebraico, è fondamentale sapere che la Shin è collegata anche a Ruah Elohim(lo Spirito che aleggia sulle acque) che è anch’esso pari a 300 in ghematria; questa coincidenza numerica è molto importante anche per la cabala cristiana,perché dà una coincidenza di valore, al Cristo ed allo Spirito Santo, come a suggerire la funzione della Shin cristiana all’interno della Formula Pentagrammatica.
“Lo Spirito di Dio mi ha creato e il Soffio dell’Onnipotente mi ha dato la vita” (Giobbe 33:4) (notate questi numeri)
Riprendendo il numero 21 possiamo aggiungere che esso stesso è pari al 7 moltiplicato per 3 volte,pertanto è, in questo contesto, un simbolo trinitario attivo che interviene ed agisce  sulla  frequenza della creazione, ovvero sulciclo del 7 (vibrazione del soffio).  La frequenza della vibrazione dei cicli,stabilisce la qualità emergente dell’esistente, che cadenza il processo di emanazione e comunione traSpirito e materia. Tale verità è chiaramente custodita anche all’interno dello stesso numero 7, che è la somma del 3 e del 4. Nondimenonon va tralasciato che il 4, come  pitagoricamente dimostrato, contiene la perfezione del 10.
Entrando nel microcosmo della lettera è meraviglioso scoprire che è composta da 3 yode 4 vau (sempre 7), la somma di tali lettere in ghematria dà 55 che é un 10, ma in primis è anche un doppio 5, ( Il cinque di fronte a cinque per citare il SeferYetzirah),ovvero il secondo ciclo dell’Adam Kadmon,quello in cui può avvenire la reintegrazione dell’uomo nel suo archetipo divino,nonostante la tremenda opposizione dualistica delle forze del dispiegamento della manifestazione polare.  
Lo studio e la meditazione di questi numeri e di queste potenze, l’interiorizzazione dei simboli, può portare alla scoperta ed all’intuizione di ulteriori parole e concetti che sono dei veri e propri meccanismi di rivelazione della perfezione e dell’immanenza del Mistero.
Vale la pena fare anche un cenno alla composizione dei sentieri dell’Albero della Vita; la Schin, almeno per la cabala tradizionale, rappresenta il sentiero n.24che va orizzontalmente da Binah a Chochmah. Tale sentiero appare come il velo che rende insondabile la triade superna o triangolo divino;il limite superiore a cui tendere nella Grande Opera della Reintegrazione.
Il destino écelato oltre il velo delle prime tre Sefirot; lì il mistero dell'Istruzione Archetipa ovvero il Verbumè inaccessibile alla comprensione della logica.Il Sentiero n. 24 è infatti chiamato anche percorso della coscienza immaginativa, il Chashmalo  seme coscienziale che brilla di luce nelle profondità dell’Io; l’impermanenza del pensiero psichico ordinario lo rende inafferrabile e completamente incatenato ai condizionamenti del mondo molteplice.
Gesù svela questo mistero essendo il simbolo dell’uomo pneumatico, l’uomo luminoso che governa la Gnosi assoluta, l’uomo che si libera dai ceppi della carne per ricongiungersi con il suo Se Spirituale.
Giungiamo quindi alla Shin come simbolo cristiano. La sopravvivenza della cultura gnostica e in generale del cristianesimo esoterico,gli insegnamenti segreti, i simboli ed i rituali, tramandati nei secoli da bocca ad orecchio, incontrano ad un certo punto delle condizioni speciali per riaffiorare in maniera più manifesta, o comunque lasciando una chiara traccia nei testi dagli importanti studiosi della tradizione che si sono succeduti.
Siamo nel Rinascimento italiano dei circoli neoplatonici; la caduta di Bisanzioaveva comportato una fuga verso l’Europa del ceto religioso bizantino e la ridiffusione di testi originali di filosofia platonica; inoltre la cacciata degli ebrei dalla Spagna con l’arrivo di molti cabalisti in Italia, ma specialmente l’ascesa di una classe nobiliare dedita al mecenatismo illuminato ed interessata all’esoterismo, creano nuovamente le condizioni favorevoli per lo sviluppo di studi sincretici di filosofia, misticismo e cabala, che portano alla nascita di un vasto movimento di cabalisti cristiani in tutta l’Europa.
Per i cabalisti cristiani la Formula Pentagrammatica è il simbolo della reintegrazione dell’uomo nel divino. Con la Schin rossa al centro il nome sacro Yod He Vau He, diventa la più potente formula trasmutatoria, la vera parola di potere.
Il filo dell’iniziazione da persona a persona, prosegue a mio avviso ininterrotto e i simboli sacri già consegnati ai Rosa Croce, vengono tramandati fino alla fine dell’800, entrando nel perimetro della tradizione Martinista, per poi essere diffusi in tutte le correnti esoteriche dei primi del 900 ed anche in ordini non appartenenti ad una matrice esclusivamente cristiana.
I cabalisti cristiani ed in primis Pico della Mirandola avevano già fondatola loro indagine sullo studio e sull’interpretazione di questi antichi simboli, indagandone le connessioni col mistero trinitario,con la figura del Cristo e con il concetto di reintegrazione dell'uomo nel divino.
In particolare, a proposito della Shin e della Formula Pentagrammatica,nell’opera “72 Conclusioni Cabalistiche”Pico scrive:
5.    Qualsiasi ebreo cabalista che segua i princìpi e la lettera della scienza della cabala è inevitabilmente costretto ad ammettere la trinità e ciascuna delle persone divine –Padre, Figlio e Spirito Santo- e ciò, esattamente, senza aggiunte, diminuzioni o variazioni, secondo gli assunti del cattolicesimo. Corollario: non solo chi nega la Trinità, ma anche chi la pone in modo diverso dalla dottrina cattolica, come Ariani, Sabelliani e simili, possono essere con chiarezza ricondotti all’ortodossia, se ammettono i princìpi della Cabala.
6.    I tre grandi nomi di Dio di quattro lettere che si incontrano per mezzo di un miracoloso trasferimento di proprietà nei libri segreti dei cabalisti vanno fatti corrispondere alle tre persone della Trinità così: Eheyeh (Io Sono) è il Padre, YHWH è il Figlio, e Adonai è lo Spirito Santo. Lo può capire chi molto ha approfondito la Cabala.
7.    Nessun ebreo cabalista può negare che il nome di Gesù, Yesu, interpretato secondo i metodi e i princìpi della Cabala, significa esattamente tutto ciò che segue: Dio, Figlio di Dio, e Sapienza del Padre per via della terza persona della divinità, che è ardentissimo fuoco d’amore, unito alla natura umana nell’unità di ciò che è sottomesso.
14.    Per mezzo della lettera Shin, che sta al centro del nome YhSwh (Gesù), ci viene cabalisticamente comunicato che il mondo fu integralmente in pace, raggiungendo la sua perfezione, quando lo Yod (la prima lettera del nome) si congiunse col Vav (la quarta lettera del nome), cosa che è avvenuta in Cristo che fu vero Dio e Uomo.
15.    Per mezzo del nome ineffabile Yhwh, che i cabalisti sostengono essere il nome  del Messia che deve venire, si comprende con tutta evidenza che lui sarebbe stato Dio, Figlio di Dio, grazie allo Spirito Santo, e che dopo di lui il Paraclito sarebbe disceso sugli uomini, a render perfetto il genere umano.
16.    Dal mistero delle tre lettere contenute nella parola Shabbat (Sh-b-t), possiamo chiarire cabalisticamente che oggi si sabbatizza il mondo, dato che il Figlio di Dio si è fatto uomo, e che da ultimo sarà il Sabayo, quando gli uomini saranno rigenerati nel Figlio di Dio.

Sempre Pico nella sua opera 900 Tesi (Conclusionesphilosophicae, cabbalisticae et theologicae) scrive: " Nella lettera shin, che è il secondo nome di Gesù si intende che cabalisticamente il mondo è così come la sua perfezione quando la lettera Yod è unito alla lettera Vav, che si realizza in Cristo che era il vero Dio, figlio e uomo "(Conclusione n. 842).
SullaShin e la Formula Pentagrammaticaè stato scritto veramente tanto da parte dei cabalisti rinascimentali. Reuchlin in particolare è foriero di una suggestiva ipotesi che stabiliva una certa coincidenza tra il nome di Gesù e la formula Pentagrammatica. Tale teoria, per quanto interessante, è risultata chiaramente errata, in quanto la forma più antica del nome di Gesù era Yeshua`ישועche termina con un’Ayn. Il nome Yeshua` pertanto non contiene la lettera He, mentre a sua volta il Tetragrammaton non contiene la lettera Ayinע.
Tra gli studiosi della cabala in chiave cristiana, non può non essere non citato Henry Kunrathche nel suo  Anphitheatrum Sapientiae Aeternaee ci ha regalato delle immagini stupende sulla Grande Opera sintetizzata in simboli dell’alchimia e del cristianesimo esoterico. Kunrath si dimostrò un adepto dell’alchimia spirituale dando voce e luce, con delle bellissime incisioni, alla potenza dei simboli della tradizione.
E’ interessante, per comprendere l’importanza del Cristo nella Formula Pentragrammatica, ricordare che le prime tre lettere della stessa formula,vengono associate da alcuni cabalisti cristiani al monogramma IHS, che è scritto in latino e deriva dal greco ΙΗΣ,che sono leprime tre lettere del nome del Cristo in greco.
Sostanzialmente, per alcuni di questi cabalisti ed alchimisti cristiani, che hanno vissuto a cavallo tra il 1400 ed il 1600, la Shin nel Tetragramma, è interpretata come la cristificazione del nome ineffabile, un’ operazione magico trasmutatoria che si fonda sul riconoscimento della funzione del Cristo Eone, come entità trascendente e simultaneamente immanente nel nuovo destino dell’uomo, donatogli dalla venuta del Cristo.
D’altro canto per dar maggior carica a questa centralità della Shin nel nome Sacro, e del Cristo nella Shin, possiamo dire che i due nomi principali con i quali si indica Gesù nei testi sacri, sono Yeshùa(יֵשׁוּעַ)e Mashìach(משיח)ed entrambe le parole ebraiche hanno al centro la lettera Shin. 
Il nostro Maestro Louis Claude de Saint Martin ci dice infatti che il nome di Cristo è il fiore del Grande Nome, che il centro della Parola è il tempio del vero Dio.
A questo punto possiamo dire che la Shin, all’interno del Formula Pentagrammatica, simbolizza il Cristo e la sua potenza trasmutatoriae modificatrice della dimensione spirituale.
E’ il Cristo interiore, quell'amore, quella  volontà, quello sforzo interiore che spinge l'uomo di desiderio a vibrare in armonia al Cristo Eone,  inteso come forza universale di salvezza a tutti i livelli esistenziali.
Abbiamo parlato di spoliazione   psichica, di auto osservazione ,  di conoscenza, di sapienza, ma non abbastanza di virtù e amore;questi sono i requisiti necessari per una vera trasformazione e reintegrazione. Lavorare sui 7 Arcangeli non deve essere un  lavoro di mera autoconoscenza, ma un lavoro attivo di purificazione dalle scorie psichiche, di distacco dall' EGOismo e dalle antiniziatiche debolezze,  per riuscire a dissipare al termine dell'Opera le ombre che popolano la nostra coscienza, per far posto alle virtù del Se divino.
La Shin al centro del petto è quindi la qualifica iniziatica più importante per poter diventare un Teurgo e riuscire a lavorare in perfetta simbiosi con le leggi divine in una dimensione universale e non personale. 
Concludo con le parole del Cristo sulla nuova Nascita : «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da Acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne, quel che è nato dallo Spirito è Spirito» (Giovanni 3,3-5)  
ARPOCRATE


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