domenica 30 luglio 2017

XXXI. IL DISGUSTO DELLA VITA (un anno un percorso)



Carissimi Fratelli,

Vi propongo di inserire nei nostri umili lavori, tesi alla reintegrazione, le meditazioni integrali di Paul Sédir. 
E' da questo iniziale scritto, del Fratello Sédir, che sono poi state tratte le nostre tanto amate "meditazioni dei 28 giorni". 
Ecco quindi che per riscoprire l'essenza reale di questa pratica di spogliazione e rettificazione, trovo utile, per coloro che lo desiderano, intraprendere assieme questo percorso di riflessione scadenzato lungo tutto il corso dell'anno.

Per quanto concerne come praticare, vi consiglio, se lo desiderate, la seguente pagina: La Pratica delle Meditazioni di Paul Sédir.

XXXI. IL DISGUSTO DELLA VITA

"Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno." (Luca XXII, 32)

La tristezza può diventare talmente profonda, da togliere anche la stessa volontà di suicidio. Tuttavia, se ho capito qualcosa della vita, io devo sapere che da questo stato d’animo non è il successo che mi solleva, ma lo sforzo precedente; non è l’amore ricevuto che abbellisce la mia anima; ma l’amore dato; non è la scienza in se stessa che sviluppa la mia intelligenza, ma il lavoro per acquisirla.
Ci disperiamo solo perché pensiamo troppo a noi stessi. Ma dov’è l'uomo capace di dimenticare continuamente le sue speranze e le sue preferenze? Gli educatori non fanno altro che suggerire al nostro volere delle motivazioni sempre più elevate, man mano che avanziamo indefinitamente. L'Imitazione, "il più bel libro che è giunto nelle mani dell'uomo", non è forse un allenamento interiore per sfuggire all’attenzione dei dolori terreni?
Soltanto Il Vangelo osa mostrarmi la meta suprema; ed Esso solamente osa dirmi che io posso raggiungere questo obiettivo attraverso la stessa energia che spreco per perseguire obiettivi provvisori e continui, punti culminanti delle cose del mondo, sommità della mia stessa natura e soggetti come quella al mutamento e alla morte. Se io vivifico questa energia per mezzo della volontà di raggiungere Dio, io la trasmuto, la traspongo, dal temporale all'eterno. Tuttavia questa intenzione mi è sempre accessibile in ogni situazione, non importa quale condizione d’animo, perché Dio rimane, nei fatti, il mio principio e il mio obbiettivo.
Tanto meglio se le gioie e le ambizioni comuni perdono il loro sapore. Dissipati questi miraggi, il mio metodo sarà più lucido e sereno; gli idoli non mi fermeranno più. Il discepolo sa che il suo Maestro è sempre vicino. La sofferenza non può essere per lui che come il beato respiro, che alimenta la fiamma spirituale del suo amore.

OSSERVANZA: Avere fiducia nel futuro.

www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com

domenica 23 luglio 2017

XXX. LA MISANTROPIA (un anno un percorso)



Carissimi Fratelli,

Vi propongo di inserire nei nostri umili lavori, tesi alla reintegrazione, le meditazioni integrali di Paul Sédir. 
E' da questo iniziale scritto, del Fratello Sédir, che sono poi state tratte le nostre tanto amate "meditazioni dei 28 giorni". 
Ecco quindi che per riscoprire l'essenza reale di questa pratica di spogliazione e rettificazione, trovo utile, per coloro che lo desiderano, intraprendere assieme questo percorso di riflessione scadenzato lungo tutto il corso dell'anno.

Per quanto concerne come praticare, vi consiglio, se lo desiderate, la seguente pagina: La Pratica delle Meditazioni di Paul Sédir.


XXX. LA MISANTROPIA

"Attorno a lui era seduta una folla" (Marco III, 32)

Quando la società umana mi diventa insopportabile, io comunque sento che sarebbe necessario che non le sfuggissi, che la mia pazienza ha l'opportunità di fortificarsi; forse la mia bontà, per la sforzo che mi costa, potrebbe rendere possibile dei miglioramenti imprevisti in coloro la cui compagnia va oltre la mia sopportazione.
Le più piccole cose contano. Lo sguardo scambiato con un passante esercita una misteriosa influenza su di lui, su di me, sui presenti. Il sottrarsi agli incontri, è una sorta di disprezzo; ora, ogni pianta fruttifica coerentemente con la sua natura. Vi è in Alceste un esagerato senso di autostima.
Se io ho dei problemi, o se il mio umore è cupo, uno sforzo di amabilità potrà distrarmi o fortificarmi contro il mio stesso stato d’animo; mentre la solitudine renderebbe la mia pena ancora più pungente, e il mio carattere ancor più vulnerabile.
E poi, perché gli altri non meritano affatto la mia attenzione? Io non conosco niente di loro se non una maschera; il loro essere reale mi sfugge; anche l'indovino più intelligente non potrà mai prevedere che alcuni degli aspetti di coloro che lo consultano. Nessun uomo, nessuna creatura è inutile;  da ognuno e da tutti posso apprendere una lezione.
E poi, i miei gusti cambiano più velocemente di quanto cambi l'aspetto delle nuvole sospinte dal vento. Anche per coloro che oggi mi esasperano, forse domani potrei abbandonare il mio dovere e correre dietro a loro. Non è saggezza popolare seguire gli insegnamenti della vita, come delle lezioni che si succedono l’una con l’altra, e fare ogni cosa a tempo debito?
Infine, il mio Maestro, Lui, la cui intelligenza raccoglie tutte le idee, il cui cuore splende e riflette ogni nobiltà, il cui sguardo va sempre oltre ogni miseria, Lui per cui la società umana è stata sicuramente un martirio continuo, non ha forse sopportato i vanitosi, gli sciocchi, i codardi ed i vigliacchi?


OSSERVANZA: Astenersi dal giudicare gli uomini dagli atteggiamenti della loro personalità.

www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com

domenica 16 luglio 2017

Le Giuste Motivazioni Iniziatiche



“Una notte apparve a Bruto, nella sua tenda, un’ombra gigantesca che gli disse: “Io sono il tuo demone del Male, o Bruto, e tu mi rivedrai a Filippi”. Arditamente, Bruto replicò che non sarebbe mancato all’appuntamento, e l’ombra disparve. Proprio nella piana di Filippi, presso Cavalla, sull’Egeo, gli eserciti rivali si affrontarono, nel 42 a.C., per la battaglia decisiva. I primi scontri volsero a favore di Bruto, ma per la seconda volta il gigante riapparve, muto, all’assassino di Cesare. L’indomani si riaccese la mischia, che si concluse con la disfatta dei repubblicani e col suicidio di Bruto.
(Plutarco)

Amato Fratello e Carissimo Amico, ho sempre ritenuto che la parola iniziato non debba giammai rappresentare il corrispettivo di qualche  patacca o lustrino, bensì uno stato di progressiva realizzazione dell’Essere a prescindere da contingenze di vita (mancanza di lavoro, impedimenti fisici, sedia a rotelle, solitudine sentimentale, assenza di conforto materiale e sentimentale, ecc..). Ecco quindi che in tale ottica la parola iniziato assume una nuova, e vera valenza, quasi ad identificare un tipo d’uomo diverso da quello comune. Diverso non perché automaticamente perfetto, ma perché perfettibile e attivamente sulla via della perfezione.

Vi sono molteplici motivazioni per cui si giunge alle soglie dell’Ordine Martinista. Alcune di queste sono dettate da pulsioni sociali, da necessità di essere accolti, dal bisogno di essere compresi, altre da autentico Desiderio di percorrere una via iniziatica tradizionale. Ovviamente le prime, per quanto umane e comprensibili, sono in se e per se non adeguate e, auspicherei, non ricevibili. Un Superiore Incognito Iniziatore esperto cercherà, per quanto possibile, di portare all’evidenza del bussante la reale motivazione che lo spinge alla soglia del Tempio. Sottilmente cercherà di farlo desistere quand’essa risulta essere inadeguata o insufficiente rispetto al duro cammino che l’iniziazione comporta. Attraverso l’attesa si provvederà a far maturare e sedimentare la domanda, attraverso il rimandare si cercherà di saggiarne la volontà iniziatica, oppure si valuteranno gli adempimenti e gli inadempimenti, nel completare le fasi preparatorie all’associazione.  Amo sempre ricordare che non siamo qui per fare beneficienza, e neppure per sostituirci a qualche gruppo di supporto terapeutico o psicologico, quanto piuttosto per trovare uomini e donne meritevoli di ricevere l’iniziazione martinista, ed essere a loro volta i cuori pulsanti e vivificanti della nostra tradizione. Ecco quindi che dobbiamo valutare colui che desidera divenire nostro fratello, e ciò è fattibile grazie all’analisi delle motivazioni che lo spingono, in quanto sintomi del tipo di uomo che sotto tali agiti si cela.

Norbeto Bobbio ebbe a scrivere:” Il dato di fatto è questo: gli uomini sono tra loro tanto uguali quanto diseguali. Sono uguali per certi aspetti, diseguali per altri. Volendo fare l’esempio più familiare: sono eguali di fronte alla morte perché sono tutti mortali, ma sono diseguali di fronte al modo di morire perché ognuno muore in modo diverso.”
Parole vere, ed applicabili anche al contesto iniziatico. In quanto nelle nostre Logge operano fratelli che non sono astrattamente iniziati avulsi dalle contingenze del mondo, bensì vivono, come tutti gli altri, in una società che detta tempi e regole.

Ecco quindi, carissimo fratello, che il percorso martinista, così come ogni reale percorso iniziatico, dovrebbe essere rivolto sostanzialmente ad un reale e progressivo lavoro interiore. Il quale inevitabilmente, proprio perché reale, dovrebbe portare alla costituzione di un Nuovo Uomo. Il quale è diverso, non necessariamente migliore nell’accezione profana del termine, in quanto consapevole di se stesso, dei pesi e delle misure che regolano il proprio microcosmo.

Questo tipo d’uomo non cerca giustificazione dei propri difetti e mancanze dalle contingenze della vita. Egli si assume responsabilità di servizio verso l’Ideale e verso la comunità dei fratelli di cui è parte attiva.

Così come un albero si giudica dai frutti, così un iniziato si giudica dalle proprie azioni a tutela della TRADIZIONE e della CONOSCENZA.

Colui o Colei che sono chiamati a servire, in forza dell’Onore e dell’Onere del grado, dovrebbero sempre ricordarsi che saranno ripagati dai propri associati, nell’identico modo e misura con cui essi stessi si comportano nei confronti dell’ORDINE.

In quanto per l’iniziato i tempi e i meccanismi con cui la grande legge della compensazione universale agisce sono estremamente ravvicinati.

Elenandro XI S:::I:::I:::

www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com

IL RITUALE GIORNALIERO COME STRUMENTO DI INTROSPEZIONE



ELIAS A::: I:::
GRUPPO LONGINO MANTOVA

Il rituale giornaliero è un elemento centrale della vita del Martinista; tanti aspetti sono stati trattati e tanto ancora si può dire in merito al suo significato e su come in esso vi sia concentrata tutta la simbologia che caratterizza il percorso operativo Martinista.
In realtà, esso si presta anche ad un’analisi di diverso tipo; un’analisi più semplice, in qualche modo più superficiale, poiché prescinde dallo studio dei significati simbolici più profondi. Ecco quindi che il rituale giornaliero può essere visto come un metro di misura delle limitazioni presenti nella nostra vita (nello specifico di Martinisti).
Noi tutti, nel quotidiano ci troviamo nelle condizioni di dover/poter aiutare il prossimo; indipendentemente dalle inclinazioni e dalla sensibilità di ogni singolo individuo, ci troviamo nelle condizioni di sacrificare noi stessi e porci al servizio delle persone a noi più o meno vicine. Lo facciamo per diversi motivi, primo fra tutti l’amore; ci prodighiamo quando veniamo mossi a compassione e siamo pronti a soccorrere le persone che sentiamo (per qualche motivo) a noi affini o semplicemente spesso lo facciamo solo perché sentiamo il dovere di farlo o addirittura per sentirci meglio con la nostra coscienza. Ma quando tutte le spinte motivazionali, l’amore, il sentimento di affetto o compassione termina, che ne è del nostro aiuto? Nel momento in cui sentiamo il prossimo non più affine a noi stessi, o addirittura lo consideriamo (per qualsiasi motivo) un nemico, dove finiscono i nostri slanci altruistici? E quando anche fossimo integerrimi e pronti a prestarci sempre e comunque, purtroppo, tutti i nostri sentimenti e le nostre azioni positive non serviranno a salvare gli altri o noi stessi.
Purtroppo tutto ciò non servirà a cambiare il corso delle cose, perché le cose più infauste continueranno ad accadere. Questo vale per noi stessi così come per le persone a cui teniamo e non potremo fare nulla per evitarlo. Il mondo manifesto non diventerà migliore grazie ai nostri comportamenti.
In realtà ogni azione, paradossalmente anche quella più deprecabile, può essere accettabile se è frutto di una scelta effettuata consapevolmente, purché sia stata realmente valutata e non sia stata generata da una qualche sensazione momentanea o suggerita da una qualche istanza egoica. L'unica vera discriminante è la consapevolezza. Dobbiamo fare delle scelte ed essere presenti a noi stessi.
Noi, da iniziati in particolare, dobbiamo porci una domanda: “ho, io, davvero iniziato qualcosa?”. Deve essere quindi l’inizio di un impegno di cui dobbiamo farci carico. Dobbiamo prenderci la responsabilità delle nostre scelte e perseguirle fino in fondo. Altrimenti anche una vita spesa al servizio del prossimo, rischia di rimanere sterile; si rischia di inseguire soltanto l’acquietamento della propria coscienza o peggio ancora non si fa altro che alimentare il proprio ego, senza definire mai un netto percorso di reintegrazione.
Da questo punto di vista, il rituale giornaliero può rappresentare un momento di introspezione, un modo per analizzare quello che siamo in grado realmente di mantenere rispetto ad impegno preso: quanto realmente siamo in grado di cambiare della nostra vita a seguito di una promessa; promessa fatta liberamente, senza costrizione alcuna. Effettuare quotidianamente il rituale giornaliero è una semplice prova alla quale quotidianamente ci sottoponiamo e che ci permette di analizzare noi stessi, ma tale analisi deve essere realmente onesta, perché è troppo facile cadere nell’ipocrisia, già nei confronti di noi stessi.
A questo punto non è difficile identificare attorno al rituale giornaliero i nostri principali vizi: la pigrizia, l’accidia, la menzogna… Il semplice fatto di effettuare il rituale, che è solo un primo e semplice passo, mette alla prova la nostra debole volontà. E anche quando vinciamo la nostra pigrizia, spesso manca la spinta ad approfondire, si rimane in superficie, non ci spendiamo sufficientemente per approfondire i significati dei nostri Sacri Simboli che sono (come sappiamo) tutti contenuti nel rituale giornaliero. Ma siamo sempre solerti nella giustificazione di queste nostre mancanze.
Volendo allargare i confini di questa breve riflessione, valutazioni del tutto analoghe scaturiscono considerando il rituale di purificazione mensile. In questo caso l’impegno è anche più rado nel tempo, ma nonostante questo, capita di non riuscire ad onorare tale impegno.
Nel caso del rituale di purificazione mensile, forse ancor più semplicemente rispetto al rituale giornaliero, si può identificare tutta una serie di difetti che possono essere messi in luce da una riflessione di questo tipo. In primis, banalmente non viene semplicemente effettuato; abbiamo così la pigrizia, spesso mascherata dalle più nobili motivazioni, ed ecco quindi la menzogna (verso noi stessi prima di tutti). Facciamo poi fatica a rispettare il digiuno (gola) o ad astenersi dalla sessualità (lussuria)…
È evidente che basta una semplice analisi comportamentale del nostro rapporto con i nostri rituali in grado di Associato Incognito per mettere in luce una parte della selva delle limitazioni in cui siamo immersi. È un semplice modo per guardarsi dentro, per misurare il nostro livello dell’essere.
Se non riusciamo a mantenere una promessa fatta liberamente, se non riusciamo ad organizzare la nostra vita attorno ad un impegno che abbiamo preso verso qualcosa di più grande, come possiamo cercare la reintegrazione?

Dobbiamo quindi partire onorando le promesse fatte, per iniziare a tracciare un percorso, cercando di essere sempre presenti a noi stessi.

www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com

LA NECESSITA' DEL PERCORSO INIZIATICO



La domanda più frequente che viene rivolta a chi ha intrapreso un percorso iniziatico è : Perché? Per quale necessità?
La domanda, più che legittima, avrà una risposta sempre legata a quello che siamo e a quello che la vita ci porta a diventare.
Nella mente dell'ilico lo stereotipo imperante è solitamente quello che identifica un iniziato in un perdente. Niente di più sbagliato.
L'ilico, il cui unico talento è quello di essere materia e solo materia, non può riuscire a comprendere niente che non sia materia secondo il motto che ognuno è la misura di se stesso.
Gli antichi mitografi greci, alla fine dell'epoca matriarcale, intorno al IV secolo a.C., scrissero quello che personalmente ritengo essere il più bello e completo mito di tutta la filosofia greca: il mito dei Eracle, Ercole per i latini.
Seguendo le sagge parole del M° Louis Claude De Saint Martin: La Verità non venne nuda a questo mondo ma per simboli ed immagini. Solo così la si può comprendere”
E così è.
Famoso per le 12 fatiche, nel mito originario Eracle non viene mai presentato nei racconti della sua lunga storia come un perdente.
Ma l'immaginario profano collettivo vede Eracle secondo quanto propinato dalla iconografia cinematografica del secolo scorso che ci mostra un personaggio muscoloso, abbronzato, ingenuo e pieno di buoni propositi. La potenza dell'eroe affascina e diverte il pubblico mediocre degli anni “50 che tutto voleva fare fuorché pensare. E il danno è fatto. Il tradimento è compiuto. Niente filosofia, niente messaggi esoterici, nessuna Verità. E ad aumentare la confusione una bislacca interpretazione infarcita di essoterismo che vuole le 12 fatiche identificate nei 12 segni zodiacali, forse per allontanare i profani da una chiave di lettura troppo complessa e non rischiare che potesse finire in mani sbagliate.
Eracle nel mito greco, invece, rappresenta il più grande degli eroi immortali, mezzo Dio e mezzo uomo, quando si chiamava ancora Palemone, e, quando non era ancora compiutamente né Dio né uomo, e dopo aver festeggiata l'ennesima vittoria con sfarzo, fama, ricchezza e grandi onori, colto da follia, tornò a casa e uccise la moglie e i figli.
Una storia drammatica e inquietante, ma come tutti i miti, è soltanto una rappresentazione per comunicare un messaggio che altrimenti resterebbe inascoltato.
I delitti offuscheranno l'immagine del vincente eroe. Un vincente però senza futuro perché aveva portato nella sua casa, nella sua famiglia, il metodo adottato nel mondo profano; proprio quel metodo che lo aveva appunto fatto diventare un vincente: la forza bruta.
Nel campo delle rappresentazioni e degli antichi miti il futuro è nei figli: uccidere i figli simboleggia uccidere il proprio futuro, uccidere la moglie simboleggia uccidere colei che può portarci il futuro.
L'inizio di una delle più grandi storie di tutti i tempi, quello che vinceva sempre su tutti, che aveva il successo, la fama e gli onori, Palemone, il più grande guerriero di sempre era in realtà un uomo immortale ma senza futuro.
Era, consorte di Zeus, lo detestava e, quando gli Dei olimpici lo giudicarono, Zeus gli cambiò nome e lo chiamò Eracle che significa “la gloria di Era”.
E' interessante l'idea di cambiare il proprio nome con un altro, come avviene in molti percorsi iniziatici, e cambiarlo in qualcosa che sembra essere il contrario di ciò che siamo, ma non di ciò che saremo, perché, occorre sempre tenerlo bene e a mente, è di un percorso iniziatico che stiamo trattando.
La condanna sarà esemplare: obbedire a Re Euristeo, di cui Eracle era cugino e che per uno strano, ma niente avviene per caso, scherzo del destino gli aveva usurpato il diritto al trono nascendo qualche istante prima di Eracle, aggiudicandosi in questo modo, il Regno di Tirinto.
Quindi le 12 fatiche di Eracle saranno il suo cammino iniziatico.
Ma a mio modesto avviso, le fatiche non saranno 12 ma 13 con la prima, la più importante, da identificare nell'Obbedienza, senza la quale qualunque percorso iniziatico diventa nullo. L'Obbedienza è la più grande testimonianza del controllo che noi stessi abbiamo sul nostro ego. Il nostro nemico più grande.
In una società che ci insegna che l'ego è una prova di carattere, se saremo in grado di mettere da parte le nostre idee e le nostre convinzioni, saremo anche in grado di essere veramente liberi, con la mente aperta e la capacità di vedere e ascoltare il mondo che ci circonda. E questo sarà solo l'inizio.
Eracle lavorerà sul suo essere e sulla sua forza che da attiva riuscirà a convertire in passiva,: la forza più grande, quella simboleggiata dalle colonne, acquisendo in questo passaggio anche un lato femminile come ci mostra l'XI Arcano maggiore dei Tarocchi Egizi, nel quale è una figura femminile a soffocare la belva.
Ma in questo percorso di faticosa trasformazione e di un passato da cancellare non dimenticherà mai gli amici fraterni, di accettare le sconfitte oltre alle vittorie, costruire canali, strade e ringraziare gli Dei consacrando loro boschi e templi.
La fine di Eracle sarà drammatica. Dopo una ennesima prova e una apparente sconfitta tutto sembrerà finito nel peggiore dei modi, scegliendo la morte terrena alla vita eterna, ma, come se ne conviene a un Dio, non morirà.
Anche se avvelenato dal sangue del centauro Nesso, infettato dalle frecce intrise nel sangue dell'Idra, e morto mesi prima per mano di Eracle, non potrà morire, anche se sceglierà di rinunciare all'immortalità immolandosi su una pira da lui stesso composta.
Dopo aver indossato la pelle del leone Nemeo ed essersi disteso sulla pira, prima che le fiamme possano distruggergli le carni interverrà Zeus per portare con tutti gli onori dovuti il figlio sull'Olimpo.
Soltanto adesso si potrà avverare la profezia e il nome di Eracle restituirà il significato che gli era stato imposto all'inizio di una avventura senza uguali.
Eracle lascerà le spoglie terrene e si approprierà a pieno titolo di quelle divine.
Il significato è quello di un percorso iniziatico arrivato al suo definitivo compimento.
La pelle del leone Nemeo sulle spalle, ultimo gesto della sua esistenza terrena, rappresenta la volontà e l'esigenza di proteggersi dal passato, il fuoco purificatore l'ultimo atto per un corpo troppo provato e la rinuncia alla vita un esempio di non attaccamento a ciò che si ha di più importante.
Ma oltre a Eracle, mito d'occidente, esistono altre rappresentazione che vanno nella medesima direzione.
La necessità di intraprendere un percorso di consapevolezza si manifesta con uno squilibrio delle nostre facoltà fisiche, emozionali e psichiche che nella rappresentazione cristiana antica è ben rappresentata dalla caduta da cavallo di Paolo di Tarso che da persecutore dei cristiani gnostici diventò cristiano esso stesso.
Il cambiamento è alla base dell'iniziazione.
Possiamo affrontare la prova iniziatica più importante solo se animati da una necessità che ci invita al cambiamento.
Ma è poi un cambiamento? o un viaggio all'interno di noi per recuperare la nostra identità perduta in un mondo nel quale dobbiamo essere quello che vogliono gli altri e non quello che veramente siamo? Credo che possa essere inquadrato sia nell'una che nell'altra ipotesi come in un recupero della nostra identità attraverso il metodo della spoliazione che toglie il superfluo liberando la nostra vera essenza da inutili pesi.
Ciò che è inutile è dannoso e solo basandosi su questa regola potremo ritrovare il valore di un corpo come strumento per attraversare il mare della nostra esistenza e contenere tutto il nostro essere, la nostra emotività finalmente libera di manifestarsi per quel che è e per quello che ha più valore al di là del suo prezzo e la nostra parte psichica da scoprire nelle sue potenzialità soprannaturali, di uomo come ente magico, tanto da doverla controllare più che da esaltare.

Tre corpi e un equilibrio solo.

Il nostro percorso iniziatico avrà uno scopo ben preciso e niente da quel momento sarà al caso, o peggio, al libero arbitrio con l'orrendo motto “Posso farlo, lo faccio” perché il segreto dell'iniziazione sta nel delegare alla parte più misteriosa del nostro mondo il nostro miglior frutto.

Ermes S:::I:::
www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com

MARTINISMO FRA ILLUMINISMO E RIVOLUZIONE FRANCESE




Verità A:::I:::
COLLINA ABRAXAS TOSCANA

L’Ordine Martinista venne fondato da Gérard Encausse, Papus, nella sua forma autonoma e strutturata, in Francia, nel 1891. L’insegnamento e le strutture martiniste originano però nel Settecento, nell’opera di figure come Jacques de Livron de la Tour de la Case Martines de Pasqually (Martinez de Pasqually), Jean-Baptiste Willermoz (suo epigono) e Louis Claude de Saint-Martin, un discepolo del Pasqually che sarà poi noto come “il filosofo incognito”.
Oggi non si può parlare di “un” solo martinisimo. Appare più corretto parlare di “martinismi”, strutturati in forme diverse, accomunate dal riferimento all’esoterismo cristiano e distinte in base agli strumenti preferiti per conseguire l’obiettivo della reintegrazione.
Il germe delle “radici” martiniste nacque in seno alla Massoneria illuminista del XVIII secolo, proprio dal lavoro di Martinez de Pasqually. Nato probabilmente a Grenoble, attorno al 1710, già nella metà del Settecento Martinez si trasferì in diverse località della Francia meridionale, giungendo infine a stabilirsi a Bordeaux. Qui si affiliò alla Loggia simbolica “La Française”. Martinez insegnava con le forme di un rito da lui stesso denominato "degli Eletti Cohen" (sacerdoti eletti). Dopo aver conseguito un certo numero di adesioni, Martinez intrattenne un carteggio con Gran Loggia di Francia scrivendo di aver fondato «la Gran Loggia “La Perfezione eletta e scozzese”». La Gran Loggia di Francia decise infine di autorizzarla con una bolla e la iscrisse nei suoi archivi, con il nome di “Loggia francese eletta scozzese" il 1° febbraio 1765.
L’insegnamento di Martinez si diffuse, allargandosi da Bordeaux a diverse altre città della Francia e in appena cinque anni, nel 1770, il “Rito degli Eletti Cohen” era presente in diversi centri importanti: Montpellier, Avignone, Foix, Libourne, La Rochelle, Versailles, Metz e la stessa Parigi. Un centro, quello di Lione, sarebbe in seguito diventato il più attivo del rito di Martinez – grazie all’opera del suo discepolo Jean-Baptiste Willermoz.
Martinez aveva certamente un obiettivo, che ricaviamo (nonostante la scarsità di informazioni che ci sono arrivate) dalla lettura dell'incompiuto Trattato della reintegrazione degli esseri, grazie all’esame dei resoconti dei lavori e allo studio dei contributi prodotti dagli adepti in occasione delle tornate. Traspare da questi documenti una visione di reintegrazione dell’uomo nel divino. Una visione che già maturava nel rifiuto opposto da Martinez al materialismo imperante, attraverso un'idealizzazione morale della vita in nome della quale era pronto a sostenere il prezzo delle rinunce, fisiche e materiali.
Proprio grazie a queste rinunce, e a un’intensa e costante opera di purificazione, secondo la lezione di Martinez si sarebbe potuto risvegliare il lato divino assopito in ciascun essere umano, giungendo alla liberazione quasi totale degli individui dal limite della materia. La metodologia di Martinez, sviluppata in ambito massonico, prevedeva un insegnamento progressivo e per gradi, attraverso discipline che includevano occultismo e alchimia, magia, Cabbalah e gnosi, in cerca di un obiettivo di illuminazione. Martinez morì durante un viaggio a Port-au-Prince il 20 settembre 1774.
Tra i suoi discepoli c’erano sia Jean-Baptiste Willermoz che Jean Claude de Saint-Martin. Quest’ultimo lasciava trasparire un disteso intento spiritualistico, che si sostanziò anche nell’appellativo da lui stesso scelto: “filosofo incognito”. Lasciamo per poco la successione martinezista, e seguiamo Saint-Martin: iniziato ai gradi dei Cohen dal fratello di Balzac, Jean Claude fu il segretario di Martinez ed entrò in contatto con i principali adepti dell'illuminismo martinista.
Dotato di intelligenza e sensibilità, nonché di una raffinatezza culturale maturata nel corso di ponderosi studi e riflessioni, Saint-Martin non apprezzava le pratiche magiche che il suo maestro Martinez accompagnava all’insegnamento. Preferiva la via della mistica e della spiritualità, cui volle dedicare i suoi studi e la sua attenzione. A Parigi Saint-Martin frequentò i circoli dell’alta società, diventando precettore spirituale di diverse dame e riuscendo in seguito a formare una sorta di raggruppamento spiritualista. Intanto non smetteva di evolversi e sviluppare le teorie filosofiche contenute nel sistema di Martinez. La rete sociale coltivata in quegli anni sarebbe stata la sua salvezza negli anni successivi, durante l’epoca del Terrore.
Siamo ancora tra la morte di Martinez e la Rivoluzione francese. Durante un viaggio in Germania, Saint-Martin incontrò Jacob Böhme (un illuminato) e iniziò a impegnarsi per integrare le sue teorie con parte degli insegnamenti di Martinez (un illuminato anche lui). Personaggi influenti che erano stati suoi seguaci salvarono Saint-Martin dalla furia dei rivoluzionari vittoriosi. Il Filosofo sarebbe morto nel 1803, lasciando comunque un folto seguito presente in diversi paesi d'Europa.
Per quanto accomunati sotto il nome di “martinisti”, gli adepti di Martinez e Saint-Martin appartengono a due ordini di idee ben diversi: l'insegnamento di Martinez si mantenne infatti nel perimetro della Massoneria superiore, quello di Saint-Martin si rivolgeva ai profani, respingendo pratiche e cerimonie alle quali i primi attribuivano invece un’importanza centrale.
Dove avevamo lasciato Willermoz? Era sempre operativo nel centro di Lione quando, dopo la scomparsa di Martinez e sotto la gran maestranza del successore designato, Caignet de Lestère, l’Ordine “degli Eletti Cohen" subì delle scissioni. Nel 1778 i poteri passarono al G. M. Sébastien de Las Cases. Lui non si dedicò a ravvivare la rete di relazioni tra i Templi degli Eletti Cohen, che progressivamente si misero in sonno.
Willermoz, alla guida degli Eletti Cohen di Lione, d’accordo con il Potente Maestro Sostituto degli E. C., Bacon de la Chevalerie, impiantò la tradizione martinista nel rito della “Stretta osservanza templare” che nel frattempo, e autorevolmente, guidava. Nel corso del "Convento delle Gallie" (Lione, 1778), Willermoz operò un altro significativo cambiamento: per sottrarsi all’attenzione della polizia, sostituì nella "Stretta osservanza" i "Templari francesi" con "I Cavalieri Beneficenti della Città Santa". I gradi superiori dell’Ordine continuavano nel frattempo a ricevere gli insegnamenti degli E. C. martinisti. Lo stesso cambiamento, nel corso del “Convento di Wilhemsbad” (1782) Willermoz avrebbe voluto tentarlo con la "Stretta osservanza" tedesca, servendosi dell'appoggio di due potenti massoni francesi, i principi Ferdinand de Brunswick e Charles de Hesse. Su questo tentativo, nello stesso Convento, si produsse uno scontro con gli “Illuminati di Baviera”.
Nonostante il vantaggio finale dei “martinisti”, il processo finì per interrompersi con la Rivoluzione francese, con la sospensione dei lavori delle Logge massoniche e della “Stretta osservanza”. Quando, nel 1806, i "Cavalieri Beneficenti" si ristabilirono, ciò avvenne all’interno del Grande Oriente e senza velleità di autonomia. Gli Eletti Cohen martinisti non ripresero autonomamente i propri lavori nonostante Bacon de la Chevalerie, Sostituto Universale dell'Ordine degli Eletti Cohen per il settentrione, continuasse a sedere con questo titolo nel Gran Concistoro dei Riti del Grande Oriente di Francia. Il sistema martinista dei Cavalieri Beneficenti transitò poi in Svizzera nel passaggio dei poteri dal Direttorio di Borgogna a quello Elvetico che avrebbe originato l'attuale Regime Scozzese Rettificato, ivi inclusi il suo simbolismo cavalleresco e le fondamenta nei principi cristiani.
Willermoz morì nel 1824, a Lione, lasciando in eredità poteri e “istruzioni martiniste” a suo nipote Joseph-Antoine Pont, sempre del Regime Scozzese Rettificato. I membri anziani degli Eletti Cohen continuarono, per un certo tempo, a diffondere le dottrine di Martinez a titolo individuale e in piccoli gruppi segreti di nove persone, che si facevano chiamare “Aeropaghi cabalistici”.
_______________________________________
 Fonti
Note storiche sul Memphis e Misraim e sul Martinismo, di Jean Bricaud, a c. di F. Goti, trad. VN,
Dove porta il Martinismo, di F. Brunelli (su Fuocosacro.com)
Martinezismo, Willermozismo, Martinismo, Massoneria, di Papus (su Fuocosacro.com)
La Rivoluzione francese Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre, di Jonathan Israel (Einaudi, 2016)
Louis Claude de Saint-Martin (su Fuocosacro.com)
Saint-Martin (su Treccani)

Forma del Martinismo (su Trilume)

www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com

IL TEHIRU




ARPOCRATE A:::I:::
COLLINA ABRAXAS (TOSCANA)

Era il Punto in cui nasceva il tempo, che non aveva limite nè spazio, un luogo che prima non c'era, creato al primo respiro, al primo battito di un mondo spirituale senza materia nè immagine; quel luogo è il Punto, fatto di vuoto, indeterminato e indeterminabile. Lì è nascosta l'istruzione divina, affinché ogni piccola traccia di spirito, crei spirito e ritorni allo Spirito.

La scelta simbolica di un punto non è casuale. Possiamo ricordare che il punto è un elemento fondamentale della geometria, rappresenta per il nostro intuito un concetto alquanto indeterminato. Per molti corrisponde ad un'infinitesima dimensione spaziale. 
In genere è la stessa geometria a non definirlo e a considerarlo come un elemento astratto e adimensionale, postulante l'esistenza dello spazio , ma non quantificabile nella sua estensione.
Potremmo definire pertanto il punto come un progetto che preesiste a qualcosa e che contiene, pur nella sua indeterminatezza, i semi astratti del divenire.
Senza un'estensione, non sottomesso a nessuna regola o condizione spaziale, è tuttavia il concetto archetipale che meglio definisce il momento primo della creazione tridimensionale. L'Incipit del concetto di esistenza come progetto logico.
Possiamo pertanto dire che il punto è per il pensiero umano un'ipotesi astratta del possibile ed uno dei suoi fondamenti indefinibili.

Come immaginato da alcuni dei più eminenti cabalisti, tra i quali Luria è certamente uno dei più acuti e originali, durante il processo emanativo il primo risultato dell'azione divina è la creazione di un Punto, spesso rappresentato al centro di un cerchio o di una serie di cerchi concentrici.

È il Tehiru, il punto primordiale, "luogo" in origine indistinto dall'Assoluto, da cui l'Uno decide di ritrarsi, al fine di generare un accadimento in uno spazio ormai vuoto e abbandonato.
L'azione divina si compie attraverso un'autolimitazione della sconfinata perfezione, azione definita con il termine italiano di Contrazione a cui corrisponde il latino Regressum e l'ebraico Tzitzum.

Il punto è spesso rappresentato dai cabalisti, come un piccolo cerchio di colore nero privo di luce, che viene alimentato da un raggio luminoso che attutisce l'abbandono, quasi a simboleggiare un cordone ombelicale, ultimo legame col suo creatore.

Ma il punto è anche il luogo dove si genera la dualità: da una parte il buio, vuoto abbandonato dalla luce infinita, dall'altro la luce, emanazione divina, reminiscenza dell'Assoluto. 

Tra i due abissi c'è la materia, impensabile nascita di forze opposte che si solidificano nella vita e nei i suoi significati.
In questo ritirarsi da se stesso D-o determina un luogo in base alla sua assenza, privato della luce infinita, ma che custodisce come in un lontano ricordo il segreto della sua grandezza, che rimane nascosta agli occhi e impossibile da comprendere.

La contrazione nel punto è, in un certo senso, una piccola rinuncia al privilegio della totalità e rappresenta quindi un dono grandioso ed unico rivolto alla vita.
Nel punto di colore nero, laddove l'assoluto si ritrae, nascono i mondi che gradatamente si solidificano nella materia diveniente. 
Lì ci sono le 10 Sefirot e lì nasce, per l’uomo, il desiderio istintivo di tornare all'Assoluto, di cercare la via della reintegrazione.

La luce spirituale, come un mare, nel suo ritirarsi, lascia un alone spirituale un profumo di perfezione, che tutto genera ed ordina, come un'invisibile tela che sorregge l'esistenza e dà forma alla materia.

Il punto è quindi il luogo del VERBUM.

Lo Spirito Infinito pronunciato nelle lettere divine che crea dei mondi spirituali; questi a loro volta decadendo diventano sempre meno spirito e sempre più luogo; fino a che arrivano a dimenticare la perfezione che le ha generate.

Nel Punto nasce il ricordo di un residuo invisibile, che ci fa come respirare il riflesso divino nella nostra immagine.

Ciò che è luce per gli uomini,
è luce 
da cui emana, nelle tenebre, 
la magnificenza dell'assoluto,

senza che le tenebre la possano comprendere. 

www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com