TALIA I:::I::: Collina Abraxas (Toscana)
Quotidianamente e
ovunque i martinisti che operano - qualunque sia il loro grado - eseguano il rito
giornaliero.
Noi del Sovrano Ordine Gnostico Martinista prepariamo il luogo dove operare, lo purifichiamo con l’incenso sacralizzato, ci concentriamo, troviamo la posizione più consona e procediamo. Apriamo con una richiesta e chiudiamo con una attestazione il rituale, rispettivamente con l’esecuzione di tre e quattro croci cabalistiche, creando un tempio sacro in cui operare. La croce cabalistica ci protegge, ci amplia, ci mette in contatto.
Noi del Sovrano Ordine Gnostico Martinista prepariamo il luogo dove operare, lo purifichiamo con l’incenso sacralizzato, ci concentriamo, troviamo la posizione più consona e procediamo. Apriamo con una richiesta e chiudiamo con una attestazione il rituale, rispettivamente con l’esecuzione di tre e quattro croci cabalistiche, creando un tempio sacro in cui operare. La croce cabalistica ci protegge, ci amplia, ci mette in contatto.
Decidiamo di eseguire
un esercizio, senza sottostare ad alcuna fretta, ripetendolo e cercandolo di
memorizzare al fine di familiarizzare sempre più con le gesta e le parole previste.
Si tratta di un investimento temporale, una dedica. E’ una palestra dove
affinare la nostra attenzione, dove potenziare la nostra focalizzazione,
aumentando in potenza.
Su questo lavoro è
necessario mantenere il silenzio e trattenere le energie prodotte sotto forma
di impressioni, visioni, intuizioni. Il silenzio, ricordiamoci, è il quarto
potere della Sfinge. Trattenere in sé quanto intuito, percepito, sentito, non è
un atto egoistico ma significa condensare e proteggere l’energia accumulata durante
il lavoro. Sarebbe bene fissare su un quaderno quanto emerge durante il
rituale, sia questo sotto forma di idee che di immagini. Lentamente,
abituandosi a fermare con parole scritte quanto di così sottile si è prodotto,
la comprensione aumenterà e si affinerà, confortandoci con i progressi che
riusciremo a cogliere con più naturalezza.
Lo studio e la
comprensione della croce cabalistica passa attraverso l’analisi del simbolo
tradizionale della croce, della dottrina della Kabbalah, dell’Albero sephirotico,
dei gesti rituali compiuti e dell’Opera alchemica.
La croce è una figura geometrica fatta di due linee o barre che si intersecano con un angolo retto, in maniera tale che una di esse, o tutt'e due, venga divisa a metà. E’ un simbolo antichissimo di cui sono stati rinvenuti reperti preistorici, anche in età neolitica. Di epoca anteriore a quella cristiana possiamo ricordare la croce ansata egiziana, la svastica tibetana e cretese, o ancora la croce azteca di Tlaloc. Epoche, contesti sociali e luoghi diversi che vedono la croce apportatrice di significati analoghi e simili se non identici.
Le due braccia della
croce possono essere interpretate come quattro semirette che si originano dallo
stesso punto. Il piano viene quindi diviso in quattro parti uguali che
ricordano gli elementi che i presocratici indicavano componessero il mondo:
terra, aria, acqua, fuoco. A questi si riteneva corrispondessero le parti che
costituivano l’uomo: corpo, mente, anima, spirito. I pitagorici intuirono
l’esistenza di un quinto elemento definito il sostegno dei quattro elementi, l’
“oikos”, principio rettore dell’intero universo e da cui dipendeva il ciclo
vitale. Il punto creatore, fulcro della croce, diviene circonferenza, figura
geometrica in cui è impossibile distinguere l’inizio dalla fine.
Nell’iconografia cristiano-orientale, Cristo viene appunto identificato
dall’alfa e dall’omega, prima e ultima lettera dell’alfabeto greco.
Le due braccia della
croce vengono definite dall’esoterismo islamico “ampiezza” ed “esaltazione”.
Queste, per tendere alla perfezione, devono mantenere un equilibrio fra loro,
pena la disarmonia della figura e della coscienza umana. L’armonia è una legge
cosmica per cui la natura naturata, ossia la realtà fenomenica, si raccorda
perfettamente con la natura naturans, quella che l’uomo conosce solo per
intuizione.
Anche
nella storia dell’architettura possiamo ritrovare alcune chiavi di lettura del
nostro rituale. Il simbolo del cristianesimo inizialmente aveva le
caratteristiche della croce equilatera o greca, ma lentamente il punto focale è
salito sempre più verso la sua sommità, portandoci alla croce latina che
presenta i bracci, orizzontale e verticale, di misura differente. Questo
processo simboleggiava lo spostamento del centro gravitazionale dell’uomo,
azione che lo elevava dal livello della terra verso la sfera spirituale. La
vita materiale e le cose terrene venivano relegate ai piedi della croce, come
Golgota su cui poggiare i piedi per innalzarsi e prendere il volo. Questa
tensione verso l’alto raggiunge il suo apice nel Medioevo, con il sempre
maggiore sviluppo in altezza delle cattedrali gotiche, simboli architettonici
ricolmi di innumerevoli altri simboli. All’inizio del Rinascimento questo
movimento “ascensionale” cambia completamente direzione. L’uomo torna al
centro della propria terra, riscopre la bellezza della natura, abbraccia la
sfericità del pianeta. L’afflato che prima lo vedeva volare verso l’alto,
adesso lo avvolge e lo protegge, fulcro bellissimo e terribile al tempo stesso
da cui ripartire nuovamente. In contrapposizione alle altissime cattedrali
gotiche si diffondono così edifici a pianta circolare. Prima la croce, poi il
cerchio.
Kabbalah
ha come radice “qabal” che significa “ricevere” ed è un tradizione orale
iniziatica tramandata da maestro a discepolo, che rivela il significato
esoterico delle immagini e delle allegorie dell’Antico Testamento. I testi base
della Kabbalah sono lo Zohar e il Sepher Yetzirah. La Cabalà ricerca il
contatto con Dio, sia con l’Unità assoluta che con la Molteplicità delle forme,
oltre all’Essenza Divina, in ebraico Atzmut traducibile in “oltre tutto ciò”.
Il significato più
profondo del termine “qabbalah” è comunque “corrispondenza”, evidenziando con
questo la tensione a ritrovare quel filo legante fra macro e microcosmo, quella
rete che costruisce l’unione di ogni essere fuori e dentro di sé,
l’unificazione delle infinite manifestazioni dell’universo con il trascendente,
attraverso parallelismi e legami tra nomi, lettere, numeri: “Ciò che è in Alto
è come ciò che è in Basso, perché si compia il miracolo della cosa Una” (Tavola
di Smeraldo).
La Cabalà è una
tradizione risalente a quasi tremila anni fa, basata su insegnamenti mistici,
ed è una via universale verso la Conoscenza e l’Illuminazione. Si basa
sull’individuazione e sull’attività di 32 elementi base, ossia i 32 Sentieri
della Sapienza costituiti dall’insieme delle 10 sephirot e dalle 22 lettere
dell’alfabeto ebraico, al cui interno è nascosta l’undicesima sephirà Da’at, la
Conoscenza Unificante. La I sephirah Kether è troppo elevata per poter essere
conosciuta e contattata, e quindi si è resa necessaria l’XI sephirah posta più
in basso che funge da cordone ombelicale tra la prima e l’ultima, Kether nel
mondo materiale di Assiah. Ogni interazione fra queste entità avviene
sotto il governo e l’ordine dei Nomi di Dio, in particolare il Tetragrammaton.
La cabalà afferma che
tutti gli insegnamenti sono contenuti in queste quattro lettere: Yod - Hey -
Vav - Hey. Nel passo della Torah tradotto con “ho posto (“shiviti”) sempre il
nome di Dio davanti a me”, il primo termine - che con più esattezza significa
“ho equiparato” - indica esplicitamente di cercare di imitare il Nome, di
giungere all’uguaglianza con Esso.
Notiamo infatti che,
se scritte dall’alto verso il basso, le quattro lettere del Tetragramma
tracciano il disegno della costituzione umana, individuando:
con YOD la testa
con HEY il torace
con VAV il tronco
con HEY il bacino e
le gambe
Seguendo il filo
analogico che ci deve contraddistinguere, giungeremo facilmente al grafico
dell’Albero della Vita, che è l’espansione del Nome stesso e che sintetizza
appunto i più noti insegnamenti della cabalà.
L’Albero
della Vita è un diagramma simbolico costituito da 10 sephirot, entità
circolari, collegate tra di loro da 22 canali. Le dieci sephiroth sono
considerate, sul piano spirituale, le dieci potenze dell’anima, gli archetipi e
i principi di tutte le cose manifeste, le dieci luci o sorgenti di energia che
sostengono chi si mette sul cammino di ritorno, sulla via della reintegrazione.
L’albero è suddiviso in tre colonne di cui la sinistra (femminile) è detta
della Severità o della Forma e comprende Binah (Intelligenza) – Geburah (Forza)
– Hod (Splendore), mentre quella di destra (maschile) è detta della Grazia o
della Forza e racchiude Chockmah (Saggezza) – Gedulah (Amore) – Netzach
(Vittoria), infine la centrale è la Colonna dell’equilibrio ossia la Via della
Compassione, individuata da Kether (Corona) – Dahat (Conoscenza Unificante) –
Tipharet (Comprensione) – Yesod (Verità) – Malkuth (Regno). Questa
rappresentazione è la riproposizione della caduta adamitica di cui oggi tutti
noi siamo prosecutori nella nostra esistenza. I due pilastri laterali ricordano
gli Alberi della Vita e della Conoscenza dell’eden, dove Adamo prese la
decisione di preferirne uno all’altro. Dopo questa “scelta”, gli uomini non
hanno più contatto diretto con l’Albero della Vita, depositario del bene
infinito, ma posseggono ancora la “possibilità” di raggiungerlo di nuovo,
riavvicinando nuovamente i due pilastri, equilibrando le due polarità. Opera
certamente non facile perché prevede un duro cammino e soprattutto di superare
la ferrea difesa dei Guardiani della Soglia, coppia di cherubini armati che possono
diventare dolci angeli ad ali incrociate di fronte a chi riesce a riparare la
frattura tra Adamo ed Eva, tra i due alberi, tra i due pilastri, a chi percorre
la via regale, quella mediana, governando le altre due.
Così l’Albero della
Vita si presenta come il cammino in discesa sul quale si è verificata la
caduta, ma contemporaneamente come il sentiero attraverso cui è possibile la
risalita, come una scala di Giacobbe ben poggiata sulla terra ma estesa sino al
cielo. E’ la via per la progressiva re-integrazione di tutte le facoltà umane,
avendo ogni cosa esistente in sé la struttura essenziale per crescere ed
evolversi. Come per ogni simbolo di cui si sia persa l’anima, ogni sephirot
deve essere “riaccesa”, deve essere illuminata di nuovo e irradiarsi, nella sua
gradazione splendente, dell’unico Colore universale. Le sephirot hanno senso
non tanto per se stesse, quanto per il contributo alla costruzione dell’armonia
dell’Albero della Vita. Il giusto percorso di reintegrazione passa attraverso
l’equilibrio delle manifestazioni sephirotiche all’interno dell’individuo
mediante la meditazione e la preghiera in invocazioni ed evocazioni.
Se applichiamo il
Tetragramma all’Albero della Vita, otterremo le seguenti rispondenze
orizzontali:
YOD con AZILUTH, il
mondo dello spirito
HEY con BERIAH, il
mondo della mente
VAV con YETZIRAH, il
mondo dell’emozione
HEY con ASSIAH, il
mondo dell’azione
“Atah,
Malkuth, Ve Geburah, Ve Gedulah, Le Olam, Amen”: queste le parole
pronunciate con il segno della croce cabalistica. Ci si rivolge solitamente ad
Est che per tradizione è il lato divino, rilassandosi e facendo respiri
profondi e armonici. Il corpo si posiziona solido, con le gambe divaricate come
l’ampiezza dei fianchi, a formare una V rovesciata, con la base poggiata sulla
terra. La mano destra unisce saldamente il pollice, l’indice e il medio,
che diventano un tutt’uno nelle movenze e nell’individuazione precisa dei punti
del corpo umano. La voce assume un tono solenne.
La croce cabalistica
viene eseguita all’interno dell’aura personale, ma la sua dimensione dovrà
essere sempre più ampia. Dobbiamo vederci sempre più troneggianti in altezza,
dobbiamo svettare sempre più in alto. La personalità si sentirà sempre più
libera dai limiti umani, dalle catene che si è autoimposta lungo il cammino. La
vista si amplia, il dettaglio si perde: è l’immagine nella sua grande unità che
ricerchiamo. Il nostro vero Io spirituale si sposa con il nostro misero Io
materiale dandoci il nostro Uno.
Chiudiamo gli occhi.
La forma astrale si espande in ogni direzione, soprattutto in altezza, finché
non concepiamo la terra come un punto lontano e minuscolo sotto ai nostri
piedi. Quindi si percepisce un raggio di luce che discende sulla nostra testa,
che poi scenderà sino al plesso solare, e da qui sino ai piedi.
1) Alziamo la mano
destra proprio nell’atto di cogliere un po’ di luce, e portiamola alla fronte,
appena sopra la zona intracigliare: pronunciamo ATAH “Tu sei”
2) Poi portiamo la
mano sui genitali, immaginando una luce che scende fino ai piedi e riempie il
corpo intero: pronunciamo MALKUTH “il Regno”
3) Ora portiamo la
mano sulla spalla destra: pronunciamo VE GEBURAH “la Giustizia”
4) Quindi portiamo la
mano sulla spalla sinistra con movimento orizzontale, formando così una croce:
pronunciamo VE GEDULAH “la Misericordia”
5) Adesso tracciamo
un cerchio in senso orario, facendo cioè iniziare il movimento rotatorio dalla
spalla sinistra verso il basso: pronunciamo LE OLAM “per sempre”
6) Uniamo le mani in
preghiera di fronte al nostro petto, le avanziamo e le riportiamo a noi:
pronunciamo AMEN “così sia”
Anche i monaci
tibetani hanno una sorta di croce cabalistica. Il lama pronuncia OM partendo da
un tocco leggero della fronte, quindi AH toccandosi il petto, ed infine la
bocca dello stomaco pronunciando HUM. Alcuni si toccano la spalla sinistra con
la parola DAM e poi la spalla destra pronunciando YAM. In tal modo tutte le
parti del Sattva, cioè corpo voce e mente, sono concentrate su quella
determinata immagine o divinità.
La
V sephirah è Geburah (o Ghevurah o Pec Had o Dine) e significa Giustizia ma
anche Rigore. E’ l’archetipo della volontà e del potere. E’ un monito a darci
dei limiti, e a governare noi stessi in quei perimetri. La libertà dell’uomo
risiede principalmente nella sua conquista di dominarsi, di comprendere e
gestire se stesso, gli istinti e le passioni. L’uomo giusto deve trattenere al
suo interno la ricchezza conquistata, non deve dissipare le energie, deve
essere capace di trattenere per meglio investire.
Prima di giungere a
Gedulah, prima di arrivare all’Amore, dobbiamo passare attraverso la Forza e la
Severità. Dobbiamo essere capaci di distinguere e separare il bene dal male, la
luce dal buio, la personalità dallo spirito. Si tratta di una battaglia contro
le nostre parti tenebrose, ed ogni guerra in fondo è violenta, è cruenta.
Geburah corrisponde a Marte, il pianeta rosso, il dio della guerra. Una grande
conquista deve necessariamente passare attraverso grandi prove, così come la
crescita spirituale deve per forza affrontare e superare la presa di coscienza
dei propri limiti. La personalità con le manifestazioni più basse della forza,
come l’ira e la rabbia, avranno sempre il sopravvento su di noi se non
riusciremo a scendere in battaglia armati di un desiderio fortissimo, una
volontà che potremmo anche definire violenta.
Geburah ha il compito
di ripulire in noi quanto di oscuro potrebbe limitare la luce dell’Amore. E’ il
termostato del fuoco che andiamo ad alimentare nel nostro recipiente. E’
altresì il rispetto ed il timore per la grandezza del lavoro che andiamo a
compiere.
La IV sephirah è
Gedulah (o Chesed) e significa Misericordia ma anche Grazia. Rappresenta Giove,
grande e benefico elemento astrologico. E’ l’archetipo dell’Amore,
l’elemento essenziale dell’esistenza, fondamento su cui si basa l’universo
intero. E’ quel quid necessario all’operatore per riuscire ad andare
oltre alla percezione legata all’inconscio, è quell’ampliamento della
consapevolezza che permette di leggere al di là delle immagini, cogliendone
l’origine archetipale. Gedulah è l’amore senza condizioni né richiesta di
ritorno o compenso, è puro slancio, è dono a piene mani, è la grazia che mitiga
con perdono la rigidezza della potenza opposta tramite la sephirah di ponte,
Tipharet ossia la Bellezza, la Compassione. Ghedulah ci insegna che è
fondamentale possedere volontà potente, ferma, decisa, costante, saggia,
incondizionata: che è necessario l’amore.
Geburah e Gedulah,
Forza e Amore, sono l’origine della dualità dell’animo umano, repulsione e
forza. Sono le due vie che, se allontanate e tenute parallele, dilanieranno
sempre più l’uomo squarciandolo al centro, al cuore. Ma sono anche le ali
tramite le quali l’uomo diventa simile agli angeli, superandoli in grandezza
qualora riesca a far coincidere le due vie in quella centrale della
Compassione, la Vera Via. La Cabalà insegna che nell’uomo la forza di volare ha
origine dall’equilibrio dinamico dell’amore con una potente attività.
Geburah-Forza da sola è caos mentre Gedulah-Amore è l’ordine che ne contiene la
potenza: abbiamo bisogno della giustizia ma questa deve essere mitigata con la
grazia. La Giusta Via è quella dell’alternanza e soprattutto della
consapevolezza di ciò che è necessario per progredire, passo dopo passo.
Malkuth è la X e
ultima sephirah, posizionata ai piedi dell’albero, e significa Regno.
Rappresenta la Terra, l’universo di cui il limitato essere umano è sovrano, il
tutto che è visibile e su cui può regnare. Corrisponde al mondo di Assiah,
quello della Materia, in cui ogni giorno siamo immersi.
Malkuth è l’ultima
stazione della discesa, prima di cadere nel buio definito dei Qhliphot (“gusci”
o regno del male), ed allo stesso tempo la stazione di partenza per il viaggio
della risalita. E’ il fondo della piscina in cui nuotiamo quotidianamente
trattenendo il fiato, isolati dalle luci e dai rumori lassù oltre il filo
dell’acqua, consci che solo da questo piano siamo in grado di puntare i piedi e
darci la spinta per risalire “a riveder le stelle”.
Quindi, pur
trovandosi nel punto più basso, Malkuth ha la fondamentale funzione di
riequilibrare i nostri desideri che vi risiedono, di capovolgere il percorso: è
la chiave della vita e raccoglie in sé tutto l’albero. L’uomo può risalire
soltanto da Malkuth dove porre le basi di stabilità da cui partire verso il
viaggio di ritorno mediante i mezzi che gli sono dati in questo regno.
Da quaggiù si può
volgere lo sguardo verso i livelli superiori, illuminandoli e preparandoci a
riconquistarli piano piano, ampliando il nostro stato di coscienza come un
risveglio graduale rispondente ad ogni sephirah riattivata.
Fu
Eliphas Levi Zahed (ieronimo dell’abate Alphonse Louis Costant 1810-1875) a
introdurre nuovamente la croce cabalistica fra le operatività iniziatiche;
purtroppo non riportando mai con esattezza le fonti a cui si riferisce, non
siamo in grado di dedurre con precisione il contesto magico della provenienza.
Comunque la prima
testimonianza sull’uso cabalistico della croce può essere individuata nel
IV volume del “De Occulta Philosophia” che fu pubblicato nell’ “Opera Omnia” di
Cornelio Agrippa (o forse di un suo discepolo su suo brogliaccio…), risalente
al 1560 secondo quanto ipotizzato da Reghini.
L’uso
dei nomi di potenza sono tramandati nella religione cristiana, pur trovandone
comunque tracce in altrettanto antiche testimonianze caldee, babilonesi, egizie
(solo per citarne alcune). Il simbolo della croce è presente sin dalla remota
antichità, e pur caratterizzando la religione cristiana, non ne è prerogativa unica
né riservata. René Guenon ce ne parla nel suo “Il simbolismo della croce”:
“La realizzazione
dell'Uomo Universale” è simboleggiata, dalla maggior parte delle dottrine
tradizionali, con un segno che dappertutto è il medesimo, poiché, come abbiamo
detto all'inizio, è di quelli che si ricollegano direttamente alla Tradizione
primordiale: si tratta del segno della croce, che rappresenta perfettamente il
modo in cui è raggiunta tale realizzazione, mediante la comunione perfetta
della totalità degli stati dell'essere, ordinati gerarchicamente in armonia e
conformità, nell'espansione integrale secondo i due sensi dell'ampiezza e
dell'esaltazione. Si può, infatti, considerare che questa doppia espansione
dell'essere si effettui da una parte orizzontalmente, cioè ad un determinato
livello o grado d’esistenza, e dall'altra verticalmente, cioè nella
sovrapposizione gerarchica di tutti i gradi. Il senso orizzontale rappresenta
quindi l'ampiezza, cioè l'estensione integrale dell'individualità assunta come
base della realizzazione, estensione che consiste nello sviluppo indefinito di
un insieme di possibilità soggette a condizioni particolari di manifestazione;
nel caso dell'essere umano, sia ben chiaro, quest’estensione non si limita
affatto alla parte corporea dell'individualità, ma dell'individualità comprende
tutte le modalità, essendo lo stato corporeo una di esse. Il senso verticale
rappresenta la gerarchia - anch'essa a maggior ragione indefinita- degli stati
molteplici, ognuno dei quali, considerato nella sua integralità, rappresenta un
insieme di possibilità corrispondente ad uno dei tanti "mondi" o
gradi che sono compresi nella sintesi totale dell'Uomo Universale. La formula
trinitaria del battesimo cristiano istituita dallo stesso Gesù (Matteo XXVIII,
19) è sicuramente l'origine sia della preghiera di glorificazione del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo che del segno di croce.
Questo ci spiega
oltremodo l’importanza del sacramento del battesimo quale fondamento per
l’attribuzione di virtù anche magiche conferite al segno della croce.
La
croce era formata da due assi, quello verticale “stipes” che resta sempre
infisso al suolo e quello orizzontale “patibulum” che invece era portato sulle
spalle del condannato. I cristiani chiamavano ambedue le assi col nome di
“stauros” (croce) indicando la croce in sé, oppure “horos” (confine, limite)
interpretando la croce come simbolo che abbraccia le quattro direzioni
cardinali, ossia i confini del mondo, assumendo così un valore cosmico. I primi
cristiani vedevano infatti nella croce lo strumento attraverso cui Dio restaura
la creazione caduta e perduta per colpa di ADAM il cui nome viene appunto
legato alla croce e ai quattro punti cardinali: “…poi videro [gli angeli] che
da tutta la terra raccolse un pugno di polvere, da tutte le acque attinse
qualche goccia, da tutta l’aria ne prese un soffio e da tutto il fuoco ne
trasse un po’ di calore…Poi Dio plasmò Adamo” (La Caverna del Tesoro). Il
rapporto Cristo/croce - Adamo/albero è alla base di tutta la tradizione letteraria
giudeo-cristiana e cristiana dei testi apocrifi. Il già citato Eliphas Levi
rintraccia la prima origine della croce cabalistica all’interno del testo greco
del Vangelo di S.Matteo:
TIBI SUNT MALKUTH ET GEBURAH ET CHESED PER
EONAS
“Perché tu sei il Regno, la
Potenza e la Gloria negli Eoni degli Eoni”
Malkuth (il Regno)
viene usato al posto di Keter (la Corona) di cui è corrispondente, mentre
Geburah e Gedulah diventano rispettivamente Potenza e Gloria. Ancora Eliphas
Levi dà la sua descrizione accurata:
“Il segno della Croce,
adottato dai Cristiani, non appartiene loro esclusivamente. Anch’esso è
Kabbalistico e rappresenta le opposizioni e l’equilibrio quaternario degli
elementi. Dal versetto occulto del Pater che abbiamo segnalato nel Dogma,
vediamo che anticamente vi erano due maniere per farlo, ed almeno due forme
diverse per caratterizzarlo: l’una riservata ai sacerdoti ed agli iniziati,
l’altra accordata ai neofiti ed ai profani. Così, ad esempio, l’iniziato
portando la mano alla fronte, diceva: A TE, poi aggiungeva: APPARTENGONO, e
continuava portando la mano al petto: il REGNO; poi alla spalla sinistra: la
GIUSTIZIA; poi alla spalla destra: e la MISERICORDIA. Poi si riunivano le due
mani aggiungendo: nei cicli generatori.”
L’evocazione
dei “nomi di potenza”, posta alla base della tecnica del risveglio dei centri
sottili tramite la fisiologia occulta dell’uomo, aveva già tutte le
implicazioni teoriche e pratiche precedentemente all’apparizione della
Kabbalah. Pensiamo ad esempio al lavoro svolto dagli egizi tramite la
conservazione di alcuni organi vitali nei vasi canopi. Oppure all’antica arte
aruspicina caldea ed a quella precedente etrusca, da cui sono giunti veri e
propri prontuari con mappe analogiche fra le parti anatomiche del corpo e le
varie divinità.
“Come nel corpo dell'uomo ci sono
membra ed articolazioni, e come ci sono organi che hanno un'importanza vitale
ed altri che sono meno necessari per la vita, così si presenta anche la Torah“
Il
fine della croce cabalistica è quello di risvegliare i centri sottili
attraverso l’uso delle corrispondenze analogiche fra nomi di potenza e i vari
punti in cui queste manifestazioni divine invocate vivono microcosmicamente
nell’uomo, e l’analogia ben sappiamo essere per Platone il criterio per
astrarre l’universale dal particolare. Tali corrispondenze devono essere
ri-stabilite per via tradizionale e, tramite l’arte della Kabbalah,
ri-percorrere i sentieri che legano e col-leggano le sephirot. Tutto ciò
partendo dal risveglio dell’uomo quale Ente Magico tramite gli strumenti del
gesto, del segno, della parola, del pensiero. Le sephirot e la loro posizione
sull’Albero della Vita, disegnano, tramite i simboli e le analogie, tutta la
complessità microcosmo-macrocosmo. E’ possibile quindi collegare il mondo
finito, il conosciuto, il nostro malkuth, all’infinito ossia a ciò
che in ebraico viene chiamato ”Ain Soph”.
“La
croce è il geroglifico alchemico del crogiuolo” (Fulcanelli - “Il mistero delle
cattedrali”), in tardo latino “crucibulum” che ha per radice crux,
crucis. E’ in questo che Cristo muore per rinascere purificato,
Uomo Nuovo. La croce, con la sua tracciatura, ci parla quindi anche del
cammino iniziatico, del percorso ermetico di V.I.T.R.I.O.L.: scendiamo verso le
oscure profondità del nostro Io materiale (inferno), per poi risalire fino al
punto d’incontro con l’orizzonte della terra (purgatorio) ed infine, dal
centro, espandere la nostra vista e la nostra risalita (paradiso), lì ove il
cuore indica l’ingresso della segreta caverna da cui abbiamo iniziato il
cammino in noi stessi.
Se riportiamo sul
Tetragramma verticalizzato sull’Albero della Vita gli elementi alchemici,
ritroveremo:
YOD con il Fuoco
HEY con l’Aria
VAV con l’Acqua
HEY con la Terra
Nel
nostro rituale giornaliero eseguiamo la croce cabalistica con parole e gesta
segnate sul nostro corpo. Ricorriamo al linguaggio ebraico perché questo ci
permette di ricostruire l’Albero della Vita su di noi, in questa scenografia
materiale da cui dobbiamo iniziare a lavorare per un perfetto allineamento dei
nostri corpi spirituale, mentale, animico, fisico. Invochiamo le qualità di
quella determinata sephirah pronunciando il Nome della Manifestazione divina e
vibrando con essa, fino ad accordare la coscienza con il raggiungimento
dell’evocazione. L’elemento chiave per l’efficacia di un rituale rimane il
trinomio “pensiero-sentimento-volontà”.
Abbiamo
individuato con il nostro bacino un triangolo con la base sulla terra, simbolo
ermetico del fuoco. Poi ne tracciamo un altro, con vertice opposto, dove la
base è rappresentata dalla nostra dualità, e il vertice verso il basso, simbolo
dell’acqua. Ricerchiamo un contatto con Dio affinché si riaccenda la scintilla
della nostra regalità e, illuminandoci totalmente nella nostra verticalità,
faccia “operare” i due triangoli entro il cerchio dell’Unità. Concentriamo il
fuoco al nostro petto, proprio là ove si accende la lettera rossa che doniamo
all’infinito per riportarla in noi e custodirla su questo mondo terreno.
Con la
sovrapposizione dei simboli ermetici dei due triangoli, acqua e fuoco,
concepita tramite gli altri due simboli delle sephirah laterali, terra e aria,
otteniamo il Sigillo di Salomone che, riportato sul quadrato magico del SATOR,
individua la parola TAO, letteralmente “Via” ma spesso tradotto come “Principio”:
l’eterna, essenziale e fondamentale forza che scorre attraverso tutta la
materia dell’Universo, coniugando il nostro Yang (maschile, attivo, luce) con
il nostro Yin (femminile, passivo, ombra) ovvero le due metà dell’Uovo del
Mondo.
La croce cabalistica
incide a fuoco su di noi il pantacolo martinista, tracciando la croce,
unificando gli elementi, dissipando le dualità nell’unica risposta attraverso
cui iniziare il cammino di reintegrazione. Lì dentro quel cerchio che trova la
sua ragione prima nel centro vivificante si può finalmente parlare di
quell’armonia universale che lega tutti i livelli del cosmo, terra uomo e
cielo, e si può magnificamente nutrire il nostro albero rigoglioso con le radici
nella volta celeste.
“Quest’albero dalle dimensioni
celesti si è innalzato dalla terra al cielo, pianta immortale fissatasi a metà
strada tra la terra e il cielo; fondamento di tutte le cose, sostegno
dell’universo, supporto del mondo intero, legame cosmico che tiene unita la
volubile natura umana, assicurandola coi chiodi invisibili del- lo spirito,
affinché, unita al divino, non possa più distaccarsene. Toccando il cielo con
l’estremità superiore, con i piedi raffermando la terra, tenendo stretto da ogni
parte, con le braccia sconfinate lo spirito numeroso diffuso nell’aria, egli fu
tutt’intero in tutte le cose e dovunque”
(Omelia “In Sanctum Pascha” -
Anonimo)
www.martinismo.net
eremitadaisettenodi@gmail.com
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