domenica 5 febbraio 2017

CONSIDERAZIONI SULLA FORMULA PENTAGRAMMATICA



Elenandro XI S:::I:::I:::


Ancora oggi, malgrado i decenni che sono trascorsi dall’emotiva polemica scatenata da Arturo Righini, che ricordiamo era stato anch’esso martinista seppur di grado non troppo elevato, l’esatta comprensione del nome pentagrammatico pare sfuggire ai più, e drammaticamente spesso proprio a coloro che dovrebbero trovare in esso centralità e perenne motore della propria opera. 
In quanto, è bene sottolinearlo, non vi può essere nessun reale avanzamento lungo il sentiero martinista, senza comprensione (prendere insieme, contenere in se) della reale estensione, intensità e natura di quella che nel Convivium Gnostico Martinista correttamente chiamiamo Formula Pentagrammatica. 
Già tale nostra indicazione suggerisce molto, forse anche troppo, su quanto simboleggia “l’irruzione della Scin” all’interno del Tetragrammaton, e certamente non è il nome del Cristo fattosi uomo, ma ben altro che nel proseguo di questo lavoro, che sarà sviluppato in un arco temporale che non può ridursi all’oggi, analizzeremo nei modi e nelle forme opportune.
Dicevamo Formula in quanto tale parola ha una varietà di significati e sfumature che ben tratteggiano il pensiero che noi riserviamo a queste cinque lettere. Il senso profondo della
Formula Pentagrammatica va intuito più nel silenzio dell’Opera, che con l’occhio della mente e della dialettica.
Essa indica gli ingredienti che determinano un composto. Ebbene questo sono le cinque lettere, in quanto, e lo vedremo, indicano gli elementi formanti la manifestazione, e fra essi uno che è unica cagione di trasmutazione.
La formula è una frase di rito, che viene pronunciata durante dei momenti solenni. Evidentemente ogni vero martinista sa, o dovrebbe sapere con sua buona pace, che il rituale giornaliero, così come ogni nostro altro rituale individuale e collettivo, è momento solenne e sacrale. Chi non si riconosce in tale prospettiva è nel migliore dei casi un martinista solo apparente, deprivato completamente dell’aspetto sacrale e magico operativo.
Al contempo la formula è un insieme di segni e simboli di uso convenzionale, che tramite l’interpretazione di colui che sa leggerli forniscono utili informazioni in merito agli elementi,  e alle loro relazioni. Ognuno dei nostri associati sa o dovrebbe sapere quali corrispondenze sono da ricercarsi in queste cinque lettere, e in cagione della propria maestria applicarle al bisogno e al momento.
Infine la formula è un’espressione simbolica che sott’intende delle operazioni, attraverso le quali è possibile, dati elementi certi e conosciuti, giungere a dei risultati. E come non cogliere ancora l’evidenza di questo enunciato con la formula pentagrammatica e le operazioni che essa allude, e suggerisce tramite la forma, il suono, e la permutazione ?
Ecco quindi che già da questa breve introduzione
vogliamo sottendere, come è si enunciazione, ma anche elemento vivificante di transizione fra una forma precedente e una in divenire. È l’indicazione dell’Opera da compiere, ma è anche strumento di tale Opera, ed infine è l’Operatore stesso, in quanto nelle suo sviluppo essa tutto investe e raccoglie in se. 
È infatti al termine di ogni lavoro che il martinista assolve che tale Formula trova collocazione, a voler indicare che tutto quanto è in sua ragione preparatorio, ed essa è l’architrave che regna sull’intero Tempio Martinista, e la corona di cui si deve cingere l’iniziato. 
Il rito giornaliero, ed ognuna delle sue articolazioni e completamenti, così come da noi è in uso, in essa trova finalizzazione.  Identicamente i riti di loggia prevedevano che il filosofo la pronunci con vigore e maestria, e quanta tristezza quando la troviamo decaduta a mero orpello dialettico, quasi si fosse in presenza di dilettantesche recite, prive di arte, di passione, di intelletto. In quanto è con essa, con il simbolo (yantra) e la vibrazione della parola di potere (mantra) che il Filosofo irradia la luce che fende le tenebre, e la forza sorretta dall’amore e indirizzata dall’intelletto plasma la materia bruta. Il martinista, di ogni Ordine e Grado, si dovrebbe ben ricordare che è stato proprio attraverso tale suono che ha potuto essere accolto nella nostra antica ed operosa fratellanza. Solamente queste semplici osservazioni dovrebbero suggerire in ognuno di noi un’attenzione particolare, uno studio costante, una passione intensa, verso di essa. Purtroppo come spesso accade si confonde la forma per la sostanza, e si perde di vista ciò che realmente è fonte di senso e significato.
“Ciascuno vede ciò che si porta nel cuore.” ebbe a dire Goethe, che sicuramente molto sapeva sui simboli. Così ognuno di noi, in virtù dell’amore e del genio personale, intravede nel simbolo centrale del martinismo un qualche significato. L’aforisma utilizzato vorrebbe però suggerire, valevole per la formula pentagrammatica così come nella comprensione di ogni simbolo, che è
necessario andare ben oltre lo studio, spesso svogliato, e piatto di quanto appare (forma), e procedere tramite la via del cuore, della pratica reale, per permettere che la Formula abbia a fiorire, e sviluppare la propria azione trasmutativa.
Se tale lettura è sovente difficoltosa per colui che giornalmente interagisce, o dovrebbe farlo, con essa, posso immaginare il malevolo profano completamente arido nel cuore che non comprendendone i misteri e la genesi, finisce col riversare sugli altri la propria ottusa cecità.
Comportamento spesso riscontrabile in certi mediocri epigoni di maestri reali o presunti, che hanno impegnato la propria vita a giudicare tutto fuorchè se stessi, condannandosi spesso a curiose giravolte, consone  più di una sala da ballo che non di un ambiente iniziatico. È fra gli altri il caso di Guénon che fino a quanto era martinista trovava conforto e prestigio nel trattare della formula pentagrammatica, salvo poi ricredersi su essa una volta allontanato dall’Ordine. Riportiamo qui un suo breve studio inserito all’interno di un lavoro più ampio dedicato ai numeri.
“Se il centro della croce è considerato come il punto di partenza delle quattro braccia, esso rappresenta l’Unità primordiale; se invece lo si considera come il loro punto di intersezione, non rappresenta che l’equilibrio, riflesso di questa Unità. In questo secondo significato, è designato cabalisticamente mediante la lettera scin, la quale posta al centro del tetragramma הוהי , le cui quattro lettere figurano sulle quattro braccia della croce, forma il nome pentagrammatico הושהי , sul significato del quale non insisteremo qui, non avendo voluto che segnalare questo dato di sfuggita. Le cinque lettere del Pentagramma si pongono alle cinque punte della Stella Fiammeggiante, figurazione del Quinario, che simboleggia più particolarmente il Microcosmo o l’uomo individuale. La ragione di questo è la seguente: se si considera il Quaternario come l’Emanazione o la manifestazione totale del Verbo, ogni essere emanato, sottomultiplo di questa emanazione, sarà ugualmente caratterizzato dal numero quattro; esso diventerà un essere individuale nella misura in cui si distinguerà dall’Unità o dal centro emanatore, e abbiamo appena visto che questa distinzione del Quaternario dall’Unità è precisamente l’origine del Quinario. “
(Guénon Osservazioni sulla Produzione dei Numeri. . Pubblicato in La Gnose, giugno-luglio-agosto 1910 con lo pseudonimo Palingenius, inserito nella raccolta postuma René Guénon, Melanges (Gallimard, 1976). Pubblicato in italiano sulla Rivista di Studi Tradizionali n° 34, Gennaio-Giugno 1971 e presente nella raccolta René Guénon, Il Demiurgo, Adelphi, 2007. )  
Promettendo di tornare su quanto riportato in merito al passaggio dal quaternario al quinario, e sottolineando come esso suggerisca che è necessario approfondire ciò che precede, per meglio comprendere ciò che segue, vorrei evidenziare questa espressione della Formula Pentagrammatica, che risulta essere quella da noi impiegata nel Convivium Gnostico Martinista, e che assume centrale importanza nei nostri quattro riti di Luna Piena.
  
L’evidenza della Scin al centro è resa distinguibile   dal rosso con cui è marcata, che trova contrasto nel nero delle altre quattro lettere. Visto che niente nelle strutturazioni rituali ed operative è lasciato al caso, o almeno così dovrebbe essere, è lecita aspettativa interrogarsi su tale artificio. Indubbiamente siamo innanzi, come si indicava nelle prime frasi di questo lavoro, ad un’irruzione, ad un rompere una precedente continuità ed identità. Ciò da vita ad un prima ed ad un dopo (temporali), così come ad una nuova forma, ma al contempo ad una nuova sostanza. In quanto è formalmente evidente che non siamo più innanzi
al precedente yantra, così è altrettanto evidente che non siamo più innanzi all’iniziale mantra. Qualcosa è avvenuto, e questo qualcosa è appunto il dinamismo trasmutativo ad opera di un’agente “esterno” che tutto modifica: la Scin. 
Forma, Nome, Tempo le tre grandi illusioni che avvolgono l’uomo, i tre grandi misteri che la formula pentagrammatica raccoglie, e permette di svelare. 

Ecco quindi che ciò che deve attirare prima l’attenzione del ricercatore, e poi fissarne l’intelletto, non è tanto quanto di pietrificato esso vede, ma il “movimento” che è stato necessario per passare dall’una all’altra formula, e quanto si viene a determinare. Qualcuno potrebbe sostenere che trattasi di “violenza”, di esperimenti, o quant’altro.  Ciò che però sfugge è che tale movimento non è apparso in modo accidentale e sgrammaticato nella mente dei martinisti, ma prossimamente vedremo che è giunto da lontano attraverso l’alchimia tedesca, la cabala cristiana, ed affonda le proprie radici nello gnosticismo alessandrino;  affascinando lo stesso Guènon. Se questa è la genesi della Formula Pentagrammatica mi chiedo quale tradizione dei detrattori, e degli ignoranti, può vantare simile millenaria certezza?

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