domenica 5 febbraio 2017

Il Silenzio



Talia Iniziata Incognita

“… Occorre essere molto attenti, occorre essere molto silenziosi, occorre osservarsi molto chiaramente. E occorre essere molto umili, ossia accettare di non avere una parte importante in tutta questa cosa. Il guaio è che, di solito, l’essere – o l’essere vitale, o l’essere mentale, o persino l’essere psichico - , è molto ansioso di avere una sua parte, molto ansioso.  Per cui si gonfia, occupa molto spazio, ricopre il resto; lo ricopre così bene che non ci si può nemmeno accorgere della presenza di questa Forza divina. Infatti il movimento personale del fisico, del corpo, del vitale, della mente, ricopre tutto con la propria importanza.” 
Mère - Conversazioni 1954

Era una calda serata di luglio, qualche anno fa, quando partecipai ad uno spettacolo di una compagnia teatrale fiorentina alla Certosa del Galluzzo, l’imponente complesso costruito a metà XIV secolo sulle colline di Firenze. Un viaggio attraverso lo spazio ed il tempo in uno dei monasteri più ricchi di storia non solo della Toscana. Il pubblico seguiva il cammino di un monaco certosino all’interno dell’edificio, incontrando figure uscite direttamente dagli spazi di spirituale mistero di quella quotidianità. Queste ci narravano la storia dell’edificio stesso, ma soprattutto la scelta, le difficoltà, la volontà di uomini che decisero - e decidono oggi - di abbandonare suoni e rumori per il silenzio e il deserto, dedicandosi alla preghiera e rispettando il blocco della “chiostra dei denti”. A noi spettatori era stato detto di non parlare e di ascoltare le parole narrate. Lo spettacolo si intitolava “L’azione del silenzio”. Quando il Maestro mi ricordò che il mio grado era dedicato allo studio e al silenzio, non potei evitare di ripensare e rivivere le sensazioni provate durante quella serata. E come spesso accade nel nostro mondo, l’esperienza ed il ricordo aiutarono a procedere ad un lavoro di riflessione e meditazione. 
               All’entrata dei templi misterici dell’antico Egitto, veniva riportata l’effige  di Arpocrate, dio del silenzio e del segreto, fratello di Horus, nel suo aspetto di giovane fanciullo che porta un dito alle labbra. L’iniziato, al suo ingresso nel tempio, doveva passare davanti all’immagine, simboleggiando l’accettazione dell’osservanza di un periodo di totale silenzio. Il “signum harpocraticum” rappresentava comunque anche l’accesso a verità superiori, il passaggio da uno stato ordinario al sapere sovrannaturale.  Plutarco – a proposito di Arpocrate -  scrive: “…è il patrono e il precettore della umana attività di comprensione del divino, che è imperfetta, immatura e inarticolata”  leggendo quindi, in quel suo gesto, il massimo invito alla prudenza durante questo trapasso di evoluzione spirituale. Sempre mediante le parole dello scrittore greco, apprendiamo che “Iside si unì ad Osiride anche dopo la sua morte e partorì un figlio prematuro e rachitico negli arti inferiori, Arpocrate”, a cui venivano fatte offerte durante i mesi estivi, accompagnandole dalle parole “La lingua è fortuna o destino, la lingua è divinità o demone”. Ancora un forte monito, ma anche l’indicazione di una via alla conoscenza basata sulla volontà e sulla concentrazione, sulla interiorizzazione della parola e sulla consapevolezza del potenziale creativo di questa. Il suo culto si diffuse fino all’area greca, traducendosi nel dio Sigalione, ed in quella romana, trasformandosi nella dea Angerona. Il Cartari, nel suo trattato cinquecentesco, descrive Arpocrate come privo di volto, con il capo coperto da un cappello e rivestito da un mantello in pelle di lupo cosparso di occhi e di orecchi perché “bisogna vedere e udire assai, ma parlare poco”. Sempre durante il XVI secolo, il simbolo del silenzio viene passato di mano da Arpocrate a Mercurio. In una incisione del “Symbolicarum queaestionum” del Bocchi, troviamo Hermes che compie il gesto del silenzio con la mano destra, tenendo nell’altra un candeliere a sette luci e portando sopra la testa una scritta circolare “Manet in se monas” (trad.: l’uno resta in sé), forse richiamo al percorso di conoscenza e ritorno verso l’Unità. Nel dipinto “Giove, Mercurio e la Virtù” del Dossi, in un’allegoria che raffigura la creazione del mondo, Giove dipinge farfalle mentre Mercurio intima il silenzio alla donna posizionata dietro di lui che rappresenta l’Eloquenza. Le parole sono inutili  e fastidiose in un atto così eccelso come quello di creare farfalle, simbolo di trasformazione e di innalzamento dell’anima: ricordiamo che la parola psiché in greco significa sia anima che farfalla. Arpocrate/Hermes rappresenta il segreto della creazione, la sapienza conosciuta agli antichi e da questi travestita in simboli e miti, il monito al segreto delle conoscenze iniziatiche e contemporaneamente l’invito all’introspezione ed alla meditazione. Il Dio del Silenzio era quindi la sintesi e la simbiosi dell’occulto sapere iniziatico che conduce ed introduce nel Tempio,  e della ricerca del silenzio interiore che emerge dopo che sono placati i fastidiosi rumori metallici della nostra umanità.
               Il silenzio appare, a primo approccio, come una privazione, un vuoto angosciante che ricorda inevitabilmente la morte.  Nei cimiteri monumentali – ma non solo – non è difficile incontrare statue di angeli del silenzio che ricordano il rispetto ed ammoniscono alla vacuità del vivere. Il mondo materiale è pieno di simboli e di comunicazioni non verbali che non vengono colti proprio perché frastornati dal rumore
assordante, dalla fretta della percezione. Nella vita infatti questo horror vacui si traduce in una ricerca senza sosta del riempimento, attraverso l’abitudine alla velocità e la quantità caotica e stordente di parole, comunicazione, contatti. In effetti nel silenzio troviamo realmente quella morte misterica che prelude alla rinascita spirituale, oltrepassiamo davvero la porta bassissima della parola per accedere all’universo silenzioso dove risuona un altro linguaggio, dove la lentezza non è errore bensì creatività, armonia, rito. Il silenzio attrae e contemporaneamente impaurisce, così come il sacro, e ci immette al loro cospetto. Imparare a mantenere il silenzio è come imparare a morire senza averne più paura, è avvicinarsi ad uno dei più grandi misteri con la luce illuminante dell’iniziato, così come insegnato da Platone, Epicuro, il Buddha, I Veda, le Upanishad, e così come possiamo mirabilmente ammirare  ancora oggi nel rituale del Cha no yu, la dolcemente sempiterna cerimonia del tè giapponese. 
 La torre di Babele è l’emblema mitico che esalta, tramite il processo inverso di negatività, il ritorno al silenzio. La leggenda narra l’ambizione e l’arroganza umana che sono già rumore interiore e poi sociale. Il linguaggio non riesce ad assolvere il suo compito ordinario di comunicazione tra simili ma anzi diventa prigione di solitudine.  All’opposto incontriamo l’isolamento di Gesù nel deserto, raccontato da Matteo nel suo vangelo. Un periodo di 40 giorni vissuti in un assordante silenzio interrotto solo dalle tentazioni di un Io ruffiano e rumoroso che tutti portiamo quotidianamente dentro di noi. Il silenzio è il luogo senza spazio e il momento senza tempo in cui possiamo riuscire a vincere la solitudine, la paura dello sconosciuto, l’angoscia dell’equilibrio interiore. È l’unica musica che può accompagnarci nel percorso attraverso il proprio deserto spirituale. Nella scuola creata da Pitagora a Crotone, veniva formato un ordine di adepti e sapienti , distinti in “exoterici”, ossia “quelli di fuori”, a loro volta suddivisi in uditori (acusmatici), parlatori e matematici, e in esoterici, ossia il “gruppo interno”. Nel primo grado era imposta la disciplina del silenzio, detta “echemythia”, considerata la più alta forma di autocontrollo , e che poteva durare da due a cinque anni (secondo Giamblico). I discepoli non potevano commentare né chiedere spiegazioni, accettando ciò che giungeva dal maestro nella forma nota a noi come ipse dixit (trad.: l’ha detto lui). Lungi dall’essere un’imposizione dittatoriale, la regola del silenzio era il primo gradino dell’insegnamento: quello che indicava che alcune verità, in un primo momento possono essere solo accettate, rimandandone la vera comprensione in seguito ad un percorso di maturazione e di progressione. Trascorso questo periodo, si veniva ammessi al grado dei “parlatori” in cui era permesso porre domande e discutere argomenti. Alla fine si passava al terzo grado dei “matematici” dove venivano approfonditi gli studi sulle scienze “fisiche” oltre che matematiche vere e proprie. Nella scuola pitagorica chi veniva meno alla regola del silenzio veniva cancellato e dichiarato morto tramite un vero e proprio cenotafio. 
                Per Pitagora restare in silenzio significava non parlare, cioè non emettere suono, ma anche non sentire, cioè evitare l’influenza di suoni esteriori. Il silenzio doveva comunque esaltare il valore degli insegnamenti del maestro, come un chiaroscuro partorisce la forma elogiando la linea in un disegno. Il significato della parola silenzio oggi è indicato nella relativa o assoluta mancanza di rumore o suono, parola o dialogo. Il termine “silentium” deriva dal latino silere che significa tacere. I latini comunque ben distinguevano questi due termini indicanti ciò/chi non parla, come ci ricorda anche L.Heilmann in
uno dei suoi quaderni.  La differenza che distingue “sileo” e “taceo” risiede nell’opposizione tra il valore positivo del primo ed il valore negativo del secondo.   Silere indica una realtà in atto o comunque che si sta creando, rappresenta la calma delle cose, l’assenza di rumore sia interiore che esteriore: è l’affermazione del silenzio. Tacere constata l’assenza di qualcosa, è la cessazione del movimento della parola e del rumore, la loro sospensione: è la negazione del suono. Due connotazioni ben diverse con direzioni altrettanto differenti, proprio come ci ha insegnato Pitagora: passiva e attiva, esteriore e interiore.  
               La valenza passiva del silenzio nasce da una sottrazione al rumore o al suono. È una fuga da invasioni esterne che, inconsciamente o meno, soverchiano la nostra volontà ed invadono gli spazi necessari alla nostra azione interiore. Muoversi dentro di noi - per ascoltarsi! - comporta quel movimento simile all’azione fisica del voltarsi, in cui inevitabilmente occupiamo più spazio del nostro volume reale, per poterci aiutare e sorreggere in un’azione di inversione di direzione. In quel momento tutto può ostacolarci se proveniente da fuori, tutto può aumentare la difficoltà motoria. Così è per l’ascolto interiore.  Il silenzio è un periodo di sospensione e  di attesa che ci consente di metterci più agevolmente in modalità ricettiva. D’altra parte il silenzio è considerato una componente della musica in quanto sospensione del suono a cui la accomuna un’unica caratteristica: la durata.   Si narra che la musica di Anton Webern sia stata creata “con una gomma da cancellare” trattandosi di composizioni esasperate sino al limite del silenzio, esaltato da un utilizzo magicamente estremo delle pause. Qualsiasi dialogo inoltre è impossibile senza pause: è inevitabile fermarsi e “dare la parola” per riuscire a parlare in due, è impossibile senza ricorrere al silenzio che assume così valore di contenitore, oltre che di contenuto.
Tale è nella nostra interiorità dove gli insegnamenti e le riflessioni devono trovare lo spazio adeguato per accomodarsi ed essere compresi. Ghandi ci insegnava che “Il silenzio apre una via”.
 La caratteristica attiva riguarda la ricerca dell’ascolto del silenzio interiore. Dopo un processo di allontanamento dalla realtà eccessiva e rumorosa, dove ogni cosa viene esteriorizzata senza alcun filtro, possiamo finalmente rientrare in noi, volgendo maggiore attenzione al cammino di askesis intrapreso per togliere la polvere interiore e vedere più nel profondo, in una apparente contraddizione in cui le orecchie si chiudono per facilitare l’apertura degli occhi. Il bambino per giocare all’immaginazione chiude le orecchie, si accovaccia e volge lo sguardo verso il suo grembo, in fondo. E il sapiente parla poco perché  ha una cosa più elevata a cui dedicare la propria attenzione: ascoltare. I padri greci – ed in tempi più recenti, Simone Weil - hanno sottolineato i legami strettissimi fra prosoché (attenzione) e proseuché (preghiera), evidenziando l’assonanza che corre fra i due termini. “L’attenzione che cerca la preghiera troverà la preghiera: la preghiera infatti segue l’attenzione ed è a questa che occorre applicarsi” (Evagrio Pontico).  
Il silenzio è parte fondante della meditazione. Socrate “ascoltava le parole silenziose del suo demone risuonare dentro di lui”. Il silenzio è pulizia interiore del sovrabbondante e predispone all’essenziale. Le tecniche di meditazione, attraverso la liberazione dai pensieri ordinari, sono propedeutiche al dialogo interiore. Nell’esperienza del silenzio riesumiamo un’area di conoscenza caratterizzata dalla vera libertà, nell’ascolto della voce interiore che è voce priva di suono. Tale meta può essere raggiunta tramite un percorso apparentemente di regressione, tornando bambini e liberandosi da abitudini,
omologazioni, assunti, limitazioni, insomma dalla nostra maya illusoria. Si tratta di un lavoro lento di ri-conquista della gestione del pensiero e soprattutto del suo diabolico chiacchiericcio, per ri-creare quella condizione di silenzio narrataci dal “Dio disse…” del Genesi. Prima della Parola cosa c’era? Il Silenzio, in attesa di essere trasformato in Vita, concentrata e chiara fonte di azione divina. Il controllo mentale e la consapevolezza del hit et nunc sono gradini fondamentali per qualsiasi tipo di meditazione atta a creare quel vuoto che si spalanca sulla nostra coscienza che “parla unicamente e costantemente nel modo del silenzio” (Heidegger) e da cui fa affiorare legami, ricordi, aloni che da sempre costituiscono il nostro vero sé. In quell’atonia ritroviamo la nostra sacralità che non può tradursi in parola – sempre in ritardo, spesso in errore - perché “Il Tao che si può esprimere non è il vero Tao” come Lao Tzu ci ha insegnato circa 2500 anni fa.
 Il silenzio è una condizione disciplinante in quanto addestra a contenere noi stessi, nell’economia del governo delle forze e nella difesa da attacchi negativi o anche soltanto superflui; crea gli spazi per comprenderci in profondità e meditare su quanto appreso, raggiungendo una solida base di armonia su cui poter costruire e progredire, ed in mancanza della quale non possiamo che procedere su gradini di sabbia bagnata. Il silenzio non è quindi meramente rifiuto o sospensione di comunicazione verso l’esterno, bensì un metodo di ricerca e di espressione. Il silenzio di silere e tacere assieme: è necessario creare un vuoto affinché questo venga riempito. Il silenzio contemporaneamente fuori e dentro me: è necessario non sentire alcuna cosa affinché si possa ascoltare tutto. Il silenzio non è una deficienza di parole bensì un nuovo e sorprendente linguaggio che trova espressione nei simboli mostratici dal maestro e nella loro evocazione interiore che ci parla continuamente, in un caleidoscopio di significati che urlano in un assordante deserto interiore. Il silenzio permette di ascoltare il linguaggio simbolico, allestendo dentro di noi una scuola idonea a riceverne l’universalità per poi intuirne il senso attraverso un abbecedario eterno. La quiescenza del rumore dei sensi è finalizzata al risveglio della conoscenza più profonda che riposa silenziosa in noi e che ogni tanto ci appare a sprazzi in ricordi, pitture, segni, musiche, edifici, trascurata dalla nostra attenzione superficiale. Il silenzio funziona contemporaneamente da contenitore e da amplificatore cosicché il simbolo, finestra sull’Universo, si spalanchi sempre di più a noi. Nell’assenza di rumore impariamo ad ascoltare le nostre profondità dove sono conservate le modalità di lettura di questo nuovo linguaggio, dove possiamo assurgere a fonti archetipali, immaginazione, reminescenze. Baudelaire nelle sue “Corrispondenze” canta:
“La natura è un tempio dove colonne viventi lasciano talvolta uscire delle confuse parole; l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli che l’osservano con sguardi familiari” 
Il silenzio cela un metodo, quello dell’apprendimento sia che questo derivi da insegnamenti orali che da operazioni interiori. È il passo principale di chi è consapevole di volere e dovere imparare, e conoscere un suono nuovo
rispetto alla propria scala musicale. È il segno di riconoscimento del neofita, consapevole dei propri limiti,  a cui risponde simbolicamente (nel senso etimologico, come due cocci spezzati da assemblare di nuovo) la parola del maestro. Il silenzio è il primo dono che viene elargito in quel piccolo angusto gabinetto dove ci ritroviamo a percepire ogni piccolo rumore come amplificato, fuori e dentro di noi. È il dono dell’umile conoscenza potenziale che si trasformerà – più o meno lentamente – in conoscenza attiva. È il dono di imparare la virtù dell’ascolto, proporzionale alla capacità di ricevere. È il dono di poter meditare senza alcun disturbo, in compagnia di se stesso. Il silenzio è dono e arte. Secondo una leggenda contemporanea, che trova il suo fondamento nella tradizione rabbinica, tutti noi portiamo sulla nostra pelle il segno del silenzio: il prolabio, quel piccolo incavo verticale tra naso e labbra , l’impronta lasciata dal dito di un angelo intervenuto alla nostra nascita, per tacitarci di tutti i saperi che possedevamo prima di venire alla luce (terrena)…
                Carl Gustav Jung, nella prefazione all’ ”IChing - Il libro dei mutamenti” ricorda che l’uovo è cavo ma non vuoto. Da fuori la luce e il calore agiscono in modo da destare la vita che è dentro, e permettono  il dischiudersi dell’uovo. Ma può venire alla luce  solo la vita che è già in germe. Così noi esseri umani siamo già predisposti alla verità interiore ma dobbiamo “covarla” facendo silenzio. Solo possedere il silenzio nella sua totalità può concederci di acquisire anche la proprietà delle parole. Diventarne parchi e maestri, consapevoli di avere fra le mani uno strumento ormai esaurito e morto. Spesso quando il Maestro mi chiede se ho domande da porgli, pur possedendone un’enorme quantità che quotidianamente alimento e si alimentano, io cado nel più profondo silenzio, accettando l’eterno kairos del mio primo grado. Il silenzio, iniziale scalino del cammino senza fine dell’iniziato, è la sottile coda dell’euroboro che, tramite l’evoluzione progressiva - lo studio il confronto il pensiero l’operatività la preghiera la meditazione -  si ripiegherà su se stesso per poter completare la sua perfezione, di nuovo e finalmente nel silenzio unitario. 
“Nel Silenzio, la Volontà libera e assoluta dell'Essere si appella al Verbo affinché ci riempia.  Senza il Silenzio, nessuna parola.  Senza il Verbo, nessun ritorno verso l'Uno”
- Tavola Naturale dei rapporti esistenti tra Dio, l’Uomo e l’Universo -
Louis-Claude de Saint-Martin   




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