domenica 5 febbraio 2017

La Maschera



Uriel Associato Incognito

La maschera è un manufatto che ricoprendo il viso o parte di esso, consente a chi la indossa di nascondere, alterare o dissimulare la propria identità e assumerne un’altra. L’etimologia della parola maschera non è conosciuta con certezza; molto probabilmente deriva dal latino “per sonar”, risuonare attraverso, e così era chiamata la maschera indossata dagli attori nell’antichità: dalla maschera si passerebbe al personaggio e dal personaggio alla persona con l’uscita di scena.
 I contesti in cui la maschera trova uso sono macroscopicamente due: quello rituale e lo spettacolo. La distinzione è determinante per capire la funzione di tutto l’intorno: gesti, musiche, parole, abbigliamento, colori. Il contesto può essere anche ibrido, ad esempio una rappresentazione teatrale che mostra un rituale spirituale vero e proprio, o una festa popolare di piazza, ove i mascherati sono contemporaneamente protagonisti e fruitori; i contesti ibridi sono particolarmente interessanti per l’antropologia culturale perché, a volte e senza saperlo, i popoli hanno conservato intatte certe cerimonie di carattere spirituale perdendone le chiavi di lettura e proprio questa perdita ha consentito la preservazione delle gesta cerimoniali. 
L’archeologia sostiene che già in età paleolitica, le maschere erano usate dagli stregoni delle tribù africane per accedere, con opportuni riti, al mondo invisibile e propiziare gli spiriti benigni e allontanare quelli maligni. Già in questo atteggiamento è ben visibile la necessità dello stregone-medium di dover nascondere per tutta la durata della comunicazione la propria identità e assumerne un’altra per poter entrare in contatto con il regno dell’invisibile. L’abbandono, anche temporaneo, della propria identità, la rinuncia, anche parziale, del proprio io è già ben visibile in questo genere di ritualità preistorica, così come l’esaltazione del ruolo a discapito dell’individualità.
 Nell’Africa preistorica le maschere trovavano una seconda funzionalità sociale nel culto degli antenati. Nel mondo moderno i busti ricordano uomini illustri morti e riproducono con grande precisione i connotati del viso; nell’Africa preistorica invece le maschere degli antenati non riproducevano il viso del defunto, ma la sua interiorità: c’era una sorta di fisiognomica, che cambiava da tribù a tribù, secondo la quale gli aspetti del viso –quali ad esempio il taglio degli occhi piuttosto che l’apertura della bocca o la forma delle orecchie– avevano una connotazione con una qualche qualità morale del defunto.


 In entrambe le funzionalità, è possibile scorgere un cambio di identità tra la persona che indossa la maschera e il personaggio. Nel caso dello stregone, egli ne deve imitare i movimenti, che sia questi una divinità, un animale o uno spirito benigno o maligno. Ciò è vero anche quando le maschere rappresentano spiriti di antenati, ove chi ne indossa una funge da medium tra il piano sensibile e quello spirituale.  
 In Asia troviamo cerimonie religiose a carattere bucolico, funerario, esorcistico, medicamentale oppure morale ove le maschere trovavano una funzione centrale. In particolare sull’aspetto morale, certi riti celebravano la vittoria del bene sul male: la vittoria del Buddismo sulla religione animista sull’Himalaya, le storie umoristico-morali dell’isola di Bali, le maschere cinesi a forma di drago con il loro significato di benevolenza e lunga vita. Da non trascurare le maschere asiatiche a tre occhi, ove il terzo occhio rappresentava l’anima. Anche il materiale adoperato, pellame, legno, piume, pietre preziose, conchiglie e altro, aveva una sua funzione simbolica che sarebbe troppo lunga da analizzare in questo lavoro. In Siberia, ove lo Sciamanesimo era molto radicato, ritroviamo la figura mascherata che, similmente allo stregone africano, era un guaritore, un comunicatore con l’aldilà e anche un saggio. Lo sciamano, per entrare in trance, abbisognava di una serie di supporti musicali molto ritmati, travestimenti con pelli animali (e si potrebbe fare un parallelo con il mantello martinista), maschere le cui fattezze ricordano quelle degli spiriti da evocare; e quando lo sciamano finalmente cadeva in trance, diventava un altro, si tramutava in altro, al fine di portare nel mondo dei vivi il potere donatogli dagli spiriti. 
Nelle Americhe centrali precolombiane, le maschere espletavano la loro funzione specialmente nei rituali a carattere religioso poiché davano poteri sovrannaturali ai sacerdoti e agli stregoni che le indossavano. Solo dopo iniziarono a rappresentare aspetti del carattere umano. Più a sud antiche civiltà andine utilizzavano le maschere in danze popolari simili a quelle carnevalesche per evocare angeli e demoni nonché spiriti di animali. In Brasile la paleontologia riferisce di maschere risalenti a sessanta mila anni fa; in America del nord, le danze ritmate degli indiani, accompagnate da tamburi e flauti di canna, favorivano l’estasi dello stregone, mascherato e coperto di pellame animale come lo sciamano asiatico, che entrava in estasi e stabiliva un contatto con il Grande Spirito, uno spazio trascendente detto anche Grande Mistero che sta alla base di tutto l’universo. Anche in Groenlandia la funzione della maschera è quella di stabilire un ponte di comunicazione con il trascendente, con l’oltre, e –caratteristica costante– l’operatore mascherato obnubila la propria personalità, la propria identità, in funzione dell’operazione magica, del ruolo sovrannaturale che sta compiendo. 
 Il Guenon, in Simboli della Scienza Sacra, dà un’interpretazione delle feste carnevalesche e delle mascherate: le maschere di carnevale sono volutamente orride per evidenziare una sorta di materializzazione figurativa degli stati inferiori dell’essere. Questa apparente direzione controiniziatica è spiegata dal Guenon in un contesto tradizionale: proprio il carattere temporaneo di una festa carnevalesca consente di canalizzare dall’interno verso l’esterno gli aspetti demoniaci che albergano dentro per renderli così inoffensivi e innocui, una sorta di esorcizzazione del male. Tra l’altro ognuno scegliendo la maschera che più nasconde la propria specifica individualità, inconsapevolmente tenta di far apparire agli occhi degli altri quello che egli porta realmente dentro e che quotidianamente deve dissimulare, nascondere, in qualche modo gestire. Ciò che sembra contro-iniziatico, nella temporaneità della festa carnevalesca, di fatto diventa esternazione liberatoria delle qualità inferiori dell’essere. 
 La maschera nel teatro non va trascurata, poiché al di là dell’aspetto puramente legato all’intrattenimento, vi sono significati assai profondi. Nel teatro greco, gli attori coprivano il volto con una maschera che raffigurava il personaggio da interpretare; tale usanza derivava dai Misteri iniziatici in cui il ruolo della maschera era un ruolo meramente esoterico: nascondere e rivelare (nel senso di ri-velare), oltre che produrre effetti di straniamento, ovverosia la deformazione dei ruoli delle persone e dell’ambiente al fine di far percepire agli spettatori i fatti trasmutati in un’altra ottica.  
 Per estensione, il termine maschera ha anche un valore negativo: con l’espressione idiomatica “mettere una maschera” si intendono i termini fingere, dissimulare, apparire volutamente diversi. Quindi metafora di falsa esteriorità, camuffamento, ipocrisia, moltiplicazione dell’io. Questa accezione non sorprenda, il linguaggio moderno tende spesso ad alterare i significati delle parole adattandoli alla vita pratica secolarizzata e strappandoli alla loro etimologia originale. 
 Nel Martinismo la maschera è il simbolo della spersonalizzazione, dell’abbandono del proprio io, della propria identità. Mediante la maschera la personalità mondana va in secondo piano, fino a scomparire. Il Martinista così diventa uno sconosciuto tra gli sconosciuti. Bisogna mettere in secondo piano, fino a imparare a far scomparire del tutto, la competizione energivora che c’è tra gli uomini, con tutte le pochezze e piccolezze della vita materiale di ogni giorno. Il simbolismo della maschera evoca l’esperienza di essere in mezzo ad una moltitudine di gente che non si conosce e a cui nulla viene chiesto, nulla essa pretende. Viene meno la logica del «do ut des», anzi prende corpo una sorta d’isolamento che invita a conoscere se stessi e dalla conoscenza di sé poi progredire all’essere se stessi. Sviluppando questo simbolismo, da questo isolamento il Martinista si pone davanti alla propria coscienza, diventa contemporaneamente giudice e consigliere di se stesso. Tutto ciò non basta: oltre alla consapevolezza di sé, giocano ruoli fondamentali la meditazione e la volontà. La meditazione quale strumento di ascolto del sé non mediato dalla ragione onde superare gli egoismi dell’io, la volontà affinché il sacrificio della propria individualità diventi atto concreto di fare il bene, e questo atto deve essere fatto da sconosciuto a beneficio di sconosciuti. La maschera e il mantello sono strumenti ermetici, strumenti di isolamento atti a proteggere dall’influenza esterna la sua ricerca interiore; sono altresì strumenti di libertà che proteggono e rendono più libero il pensiero e l’opinione del Martinista che può compiere così la sua trasmutazione interiore.
 Da porre l’accento sulla parola incognito che aggettiva i gradi martinisti: Associato Incognito, Iniziato Incognito e Superiore Incognito: Louis Claude de Saint Martin, detto Il Filosofo Incognito, era solito autodefinirsi tale proprio per abnegare la propria individualità in favore di una appartenenza a una dimensione più sistemica con il divino.
 La maschera è sempre presente nella tornata martinista, si trova sul lato sinistro dell’altare; sotto di essa trova posto il mantello e davanti il cordone. Maschera, mantello e cordone sono tre simboli di protezione, tre gioielli fondamentali della tradizione martinista, e rappresentano una sintesi simbolica di tutti gli strumenti operativi necessari per vivere e operare in contrasto con i mille superflui strumenti e protesi di cui ci dotiamo ogni giorno per agire nella vita materiale. Abbiamo visto sopra che la maschera, nella sua estensione, è un termine polisemico e può avere accezioni positive e negative; anche in seno al Martinismo, la maschera tende a essere un simbolo incompreso, probabilmente per l’accezione negativa che le dà il linguaggio moderno descritto sopra. In realtà, essa non nasconde la nostra vera natura, ma ci protegge dagli sguardi profani e questo, isolandoci dai condizionamenti, consente di scavare meglio le profondità dell’io e conoscere la propria essenza di natura divina. Tenendo a mente l’etimo della parola maschera, è come se la persona, per vedersi nel profondo, per conoscere veramente la propria essenza, debba guardarsi da una platea: è l’io che cerca di andare oltre, di essere oltre, e di guardare il sé dall’esterno, sintetizzabile nel divino ”Io Sono”, sintesi estrema della consapevolezza di appartenere a un oltre. La maschera è sicuramente uno dei simboli più vicini alla via teurgica poiché, annullando l’individualità profana, fa diventare l’uomo mezzo e veicolo per la preghiera d’invocazione e di evocazione; il mantello invece è certamente più vicino alla via cardiaca perché, proteggendo l’interno dall’esterno, simboleggiando la non dispersione del calore del cuore, fa andare nel mondo in maniera incognita, trattiene le energie interiori e rende più concentrati su se stessi, al fine di usare al meglio tali energie. 
 La maschera è indossata dai fratelli e dalle sorelle nelle sole tornate di iniziazione; per chi pratica anche i templi massonici, nasce spontaneo il raffronto tra la maschera e il cappuccio (detto anche buffa) indossato dai massoni durante la cerimonia di iniziazione. Il simbolismo non è propriamente lo stesso, per quanto sia possibile fare qualche parallelismo; nella sua accezione più semplice il cappuccio nasconde l’identità dei massoni al recipiendario, che dal momento della mezza luce fino alla piena luce dell’Oriente, quando ancora per l’ultima volta ha la facoltà di rinunciare, non ha ancora modo di conoscere chi sono i suoi potenziali futuri fratelli. Il cappuccio dell’Esperto Terribile, che è il primo massone che il profano vede quando gli viene tolta la benda nel gabinetto di riflessione, ha il compito di incutere dello spavento, funzionale a dare una certa solennità e favorire una riflessione quanto più seria e profonda possibile. Da tenere presente che durante la cerimonia d’iniziazione massonica fino alla piena luce, profano e massoni non hanno mai il volto contemporaneamente scoperto: se il recipiendario è bendato i fratelli sono senza cappuccio, se il recipiendario è senza benda i fratelli sono incappucciati. Al di là di ovvie considerazioni di natura prudenziale circa l’identità dei fratelli, questo gioco di nascondere e rivelare suggerisce un più profondo simbolismo di conoscenza dell’immanifestato che si palesa sul piano sensibile per essere catturato e fatto proprio. Forse solo questo è l’unico vero punto di contatto tra la maschera martinista e il cappuccio massonico. 
 In conclusione la maschera martinista è il simbolo dell’immanifesto che si deve mascherare per essere accessibile all’uomo. Infatti l’uomo, legato nella sua operatività al regno di Malkuth, non riesce a pensare senza categorie materiali e spazio-temporali, e quindi per poter afferrare gli aspetti dell’immanifesto, ha necessità di rappresentarli con dei simboli (vere e proprie maschere di archetipi) affinché ricadano in categorie più consone al piano umano. Girando la frase, il piano sottile per essere visibile, per stabilire un contatto con l’uomo, deve in qualche modo ri-velarsi, ovverosia per palesarsi deve mascherarsi in modo da avere sembianze meno sottili, anche se naturalmente non propriamente sensibili, diciamo –per intendersi– perlomeno intuibili per via non-razionale.                        


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